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La Guerra Civile in Francia - Karl Marx (1871)

Sunday 22 December 2019, by Robert Paris

La Guerra Civile in Francia
I

Il 4 settembre 1870, quando gli operai di Parigi proclamarono la repubblica, la quale venne quasi subito acclamata in tutta la Francia senza una sola voce discorde, una cricca di avvocati in cerca di carriera - Thiers era il loro uomo di Stato e Trochu il loro generale - prese possesso dell’Hotel de Ville. Costoro erano allora imbevuti di una fede così fanatica nella missione di Parigi di rappresentare la Francia in tutti i periodi di crisi storiche che, per leggittimare l’usurpato titolo di governanti della Francia, pensavano fosse sufficiente rappresentare il loro mandato scaduto di deputati di Parigi.

Nel nostro secondo indirizzo sull’ultima guerra, cinque giorni dopo l’ascesa di questi uomini, vi spiegammo chi erano [1]. Ma Parigi, nel turbamento della sorpresa, mentre i veri capi della classe operaia erano ancora nelle prigioni di Bonaparte e i prussiani già marciavano sulla città, tollerò che assunsero il potere, alla condizione espressa che questo sarebbe stato adoperato esclusivamente ai fini della difesa nazionale. Però non era possibile difendere Parigi senza armare i suoi operai, senza organizzarli in una forza armata effettiva, senza allenarli alla guerra attraverso il combattimento stesso. Ma Parigi in armi era la rivoluzione in armi. Una vittoria di Parigi sull’oppressore prussiano sarebbe stata una vittoria dell’operaio francese sul capitalista francese e i suoi parassiti statali. In questo conflitto tra il dovere nazionale e l’interesse di classe, il Governo della Difesa Nazionale non esitò un momento a trasformarsi in Governo del Tradimento Nazionale.

Il primo passo che fece questo governo fu di mandare Thiers in pellegrinaggio presso tutte le corti d’Europa a mendicare una mediazione offrendo di barattare la repubblica con un re. Quattro mesi dopo dell’assedio, quando si ritenne giunto il momento per cominciare a parlare di capitolazione, Trochu, in presenza di Jules Favre e di altri suoi colleghi, apostrofò i sindaci di Parigi riuniti con le parole seguenti:

"La prima domanda rivoltami dai miei colleghi la sera stessa del 4 settembre fu questa: Parigi può sostenere un assedio dell’esercito prussiano con qualche probabilità di successo? Non esitai a rispondere negativamente. Alcuni dei miei colleghi qui presenti garantiranno che dico il vero e che ho sempre avuto questa opinione. Dissi loro, con queste parole, che data la situazione, il tentativo da parte di Parigi di resistere a un assedio dell’esercito prussiano sarebbe stata follia. Certo, aggiunsi, sarebbe stata follia eroica; ma niente di più... Gli avvenimenti [diretti da lui stesso] non hanno smentito la mia previsione."

Questo ammirevole discorsetto di Trochu venne reso pubblico in seguito dal signor Corbon, uno dei sindaci presenti.

Dunque la sera stessa della proclamazione della repubblica era noto ai colleghi di Trochu che il "piano" di Trochu era la capitolazione di Parigi. Se la difesa nazionale fosse stata qualcosa di più che un pretesto per il governo personale di Thiers, Favre e C., gli avventurieri del 4 settembre avrebbero abdicato il giorno 5, avrebbero reso noto al popolo di Parigi il "piano" di Trochu e gli avrebbero proposto o di arrendersi subito o di prendere la propria sorte nelle proprie mani. Invece di far questo, quegli infami impostori decisero di curare l’eroica follia di Parigi con un regime di fame e di bastone, e d’ingannarla nel frattempo con loro roboanti manifesti, in cui si diceva che Trochu, "governatore di Parigi, non capitolerà mai" e che Jules Favre, ministro degli esteri, "non cederà mai un pollice del nostro territorio, non una pietra delle nostre fortezze".

In una lettera a Gambetta, lo stesso Jules Favre confessa che coloro contro cui stavano "difendendosi" non erano soldati prussiani, ma gli operai di Parigi. Per tutta la durata dell’assedio, i banditi bonapartisti a cui Trochu saggiamente aveva affidato il comando dell’esercito di Parigi, si beffarono in modo vergognoso nella loro corrispondenza privata della farsa evidente della difesa (si veda, per esempio, la corrispondenza di Alphonse Simon Guiod, comandante supremo dell’artiglieria dell’esercito della difesa di Parigi e gran croce della Legion d’onore, a Susane, generale di divisione d’artiglieria, pubblicata dal Journal Officiel della Comune). La maschera della impostura venne infine lasciata cadere il 28 gennaio 1871 [2]. Col vero eroismo di chi si avvilisce fino all’ultimo grado, il Governo della Difesa Nazionale, nel capitolare, si presentò come il governo francese dei prigionieri di Bismarck: parte così ignobile che lo stesso Luigi bonaparte, a Sedan, aveva arretrato di fronte a essa. Nella loro fuga disperata a Versailles dopo i fatti del 18 marzo [3], i capitulards abbandonarono nelle mani di Parigi la prova documentata del loro tradimento, per distruggere la quale, dice la Comune nel suo manifesto alle provincie, "essi non avrebbero esitato a fare di Parigi un mucchio di rovine bagnate da un mare di sangue".

Alcuni dei membri più autorevoli del Governo della Difesa avevano, inoltre, ragioni molto peculiari di carattere personale, che li spingevano a consumare tale impresa.

Poco dopo la conclusione dell’armistizio, il signor Milliere, uno dei deputati di Parigi all’Assemblea nazionale, ora fucilato per ordine espresso di Jules Favre, pubblicò una serie di documenti legali autentici, i quali provavano come Jules Favre, vivendo in concubinato con la moglie di un ubriacone residente ad Algeri, era riuscito, grazie a una mistura oltremodo sfacciata di falsificazioni succedutesi per una lunga serie di anni, a carpire, in nome dei figli del suo adulterio, una pingue eredità, che aveva fatto di lui una persona facoltosa, e come, in un processo intentatogli dagli eredi legittimi, era riuscito a sfuggire allo scandalo solo grazie alla connivenza dei tribunali bonapartisti. Poichè non era possibile sbarazzarsi di questi secchi documenti legali con nessuna quantità di cavalli-vapore della retorica, per la prima volta nella sua vita Jules Favre non aprì bocca, aspettando tranquillamente lo scoppio della guerra civile, per poi scagliare rabbiosamente sul popolo di Parigi l’accusa di essere una banda di evasi dalle galere, in rivolta dichiarata contro la famiglia, religione, l’ordine e la proprietà. Questo stesso falsario era appena salito al potere, dopo il 4 settembre, quando per senso di solidarietà fece mettere in libertà Pic e Taillefer, condannati per falso, perfino sotto l’impero, nello scandaloso affare dell’Etendard. Uno di costoro, Taillefer avendo avuto la temerarietà di rientrare a Parigi durante la Comune, fu immediatamente ricacciato in galera: dopo di che Jules Favre gridò, dalla tribuna dell’Assemblea nazionale, che Parigi metteva in libertà tutti gli inquilini delle sue prigioni!

Ernest Picard, il Joe Miller del Governo della Difesa Nazionale, che si era autonominato ministro delle finanze della repubblica dopo aver tentato invano di diventare ministro degli interni dell’impero, è fratello di un certo Arthur Picard, individuo espulso dalla Bourse di Parigi come truffatore (si veda il rapporto della Prefettura di polizia del 31 luglio 1867), e per sua confessione condannato per furto di 300.000 franchi, mentre era direttore di una delle filiali della Sociètè generale, rue Palestro n.5 (si veda il rapporto della Prefettura di polizia dell’11 dicembre 1868). Questo Arthur Picard fu nominato da Ernest Picard direttore del suo giornale, L’Electeur libre. Mentre la Comune genia degli speculatori di borsa veniva tratta in inganno dalle menzogne ufficiali di questo giornale finanziario ministeriale, Arthur correva avanti e indietro tra il ministero delle finanze e la Bourse, dove convertiva in contanti le disfatte dell’esercito francese. Tutta la corrispondenza d’affari di questa coppia di degni fratelli è caduta nelle mani della Comune.

Jules Ferry avvocato squattrinato prima del 4 settembre, riuscì come sindaco di Parigi durante l’assedio, a spremersi un patrimonio dalla carestia. Il giorno in cui dovesse rispondere della sua mala amministrazione sarebbe il giorno della sua condanna.

Uomini di questo stampo potevano trovare solo tra le rovine di Parigi i loro tickets-of-leave [4]: erano proprio gli uomini di cui aveva bisogno Bismarck. Mescolate un poco le carte, Thiers, fino ad allora ispiratore segreto del governo, apparve d’un tratto alla sua testa, con i ticket-of-leave men come ministri.

Thiers, questo nano mostruoso, ha affascinato la borghesia francese per quasi mezzo secolo, perchè è l’espressione intellettuale più perfetta della sua corruzione di classe. Prima di diventare un uomo di Stato aveva già dato prova come storico delle sue capacità di mentire. La cronaca della sua vita pubblica è la storia delle sventure della Francia. Unito, prima del 1830, coi repubblicani, sotto Luigi Filippo si intrufolo’ in un posto di ministro, tradendo il suo protettore Laffitte. Entrò nelle grazie del re provocando sommosse di plebe contro clero, durante le quali furono saccheggiati la chiesa di Sant-Germain l’Auxerrois e l’Arcivescovado e facendo in pari tempo il ministro spia e l’accoucheur [5] carcerario della duchessa de Berry. Il massacro dei repubblicani nella rue Transnonain e le successive infami leggi di settembre contro la stampa e il diritto di associazione furono opera sua. Riapparso a capo del ministero nel marzo 1840, fece stupire la Francia col suo progetto di fortificare Parigi. Ai repubblicani che denunciavano questo progetto come un sinistro complotto contro la libertà di Parigi, egli rispose dalla tribuna della Camera dei deputati:

"Come Immaginare che delle fortificazioni possono mai essere un pericolo per la libertà! Prima di tutto, voi calunniate ogni possibile governo col supporre che esso possa un giorno tentare di mantenersi al potere bombardando la capitale... ma un governo simile sarebbe dopo la sua vittoria cento volte più impossibile di prima."

Certo, nessun governo avrebbe mai osato bombardare Parigi dai forti, tranne quel governo che prima aveva consegnato questi forti ai prussiani.

Quando re Bomba [6] fece le sue prove con Palermo nel gennaio 1848, Thiers, che da un pezzo non era più ministro, di nuovo si levò alla Camera dei deputati:

"Voi sapete, signori, egli disse, quello che sta succedendo a Palermo. Voi tutti, fremete [in senso parlamentare] nell’apprendere che una grande città è stata bombardata per quarantott’ore. E da chi? Da un nemico straniero, che applicasse diritti di guerra? No signori; dal suo proprio governo. E perchè? Perchè l’infelice città reclamava i suoi diritti. Ebbene, per aver reclamato i suoi diritti si prese quarantott’ore di bombardamento... Permettetemi di far appello all’opinione pubblica d’Europa. E’ rendere un servizio all’umanità levarsi e far echeggiare, da quella che è forse la tribuna più alta d’Europa, alcune parole [soltanto parole, in verità] di sdegno contro atti simili... Quando il reggiente, Esartero, che pure aveva reso dei servizi al suo paese [il che Thiers non ha mai fatto], volle borbardare Barcellona per reprimere quell’insurrezione, da ogni parte del mondo si levò un generale grido di sdegno.

Diciotto mesi più tardi il signor Thiers era tra i più accaniti difensori del borbardamento di Roma da parte di un esercito francese [7]. A quanto pare, l’errore di un re Bomba era dunque consistito solo nell’aver limitato il bombardamento a quarantott’ore.

Pochi giorni prima della rivoluzione di febbraio, irritato dal lungo allontanamento dal potere e dagli imbrogli, al quale Guizot l’aveva condannato, e fiutando nell’aria l’odore di un prossimo sollevamento popolare, Thiers, in quello stile pseudoeroico che gli aveva valso il nomignolo di Mirabeau-Mouche [8], dichiarò alla Camera dei deputati:

"Io sono del partito della rivoluzione, non solo in Francia, ma in Europa. Faccio voti che il governo della rivoluzione rimanga in mano a uomini moderati... ma se questo governo dovesse cadere in mano a spiriti ardenti, e perfino radicali, non per questo diserterei la mia causa. Io sarò sempre del partito della rivoluzione."

Venne la rivoluzione di febbraio, ma invece di sostituire al gabinetto Guizot un gabinetto Thiers, come l’omicciattolo aveva sognato, sostituì a Luigi Filippo la repubblica. Il primo giorno della vittoria popolare egli si tenne accuratamente nascosto, dimenticando il disprezzo degli operai lo salvava dal loro odio, pure, col suo leggendario coraggio, continuò a evitare la pubblica scena fino ai massacri di giugno non l’ebbero resa libero per il suo tipo di attività. Allora divenne la mente direttiva del "partito dell’ordine" e della sua repubblica parlamentare, quel periodo di anonimo interregno in cui le fazioni rivali della classe dominante cospiravano tutte assieme allo scopo di schiacciare il popolo, e cospirarono l’una contro l’altra per restaurare ognuna la propria monarchia. Allora, come adesso, Thiers denunziava nei repubblicani il solo ostacolo al consolidamento della repubblica; allora, come adesso, egli diceva alla repubblica come boia a Don Carlos: "ti ucciderò, ma per il tuo proprio bene". Adesso, come allora, egli dovrà esclamare il giorno dopo la sua vittoria: l’Empire est fait, l’Impero e’ pronto.

Nonostante le sue ipocrite omelie circa le libertà necessarie e il suo risentimento personale contro Luigi Bonaparte, che si era fatto beffe di lui e aveva dato lo sgambetto al parlamentismo - e fuori l’atmosfera artificiale di questo, l’omiciattolo sa benissimo che egli svanisce nel nulla - Thiers ebbe la mano in tutte le infamie del II impero,dall’occupazione di Roma da parte delle truppe francesi fino alla guerra contro la Prussia alla quale incitò con i suoi attacchi violenti contro l’unità della Germania, non in quanto maschera del dispotismo prussiano, ma in quanto violazione del diritto ereditario della Francia a mantenere la Germania disunita. Mentre si piccava di brandire in faccia all’Europa, con le sue braccia da pigmeo, la spada del primo Napoleone di cui era diventato il lustrascarpe storico, la sua politica estera ha sempre portato la più profonda umiliazione della Francia, dalla convenzione di Londra del 1840 alla capitolazione di Parigi nel 1871 e alla presente guerra civile, in cui, con la speciale autorizzazione di Bismarck aizza contro Parigi i prigionieri di Metz e di Sedan [9].

Nonostante la versatilità del suo ingegno e la mobilità dei suoi propositi, è stato legato per tutta la vita alla più fossile routine. E’ evidentissimo che le correnti latenti più profonde della società moderna dovevano rimanergli per sempre celate; ma perfino i cambiamenti superficiali più palpabili erano inaccessibili a un cervello la cui vitalità si era tutta rifugiata nella lingua. Così, per esempio, non si è mai stancato di denunciare come sacrilegio ogni deviazione del vecchio sistema protezionista francese; come ministro di Luigi Filippo si era fatto beffe delle ferrovie come di un’assurda chimera; e quando fu all’opposizione sotto Luigi Bonaparte bollò come profanazione ogni tentativo di riforma del decrepito sistema militare francese. Mai, durante la sua lunga carriera politica, egli si è macchiato neppure di un solo provvedimento, sia pure dei più insignificanti, di qualche utilità pratica. L’unica sua coerenza è stata l’avidità di ricchezze e l’odio contro coloro che le producono. Entrato povero come Giobbe nel suo primo ministero, sotto Luigi Filippo, ne uscì milionario. Il suo ultimo ministero sotto lo stesso re (quello del 1 marzo 1840) lo espose a pubbliche accuse di mal vessazioni alla Camera dei deputati, alle quali si accontentò di rispondere con delle lacrime, articolo che egli tratta altrettanto liberamente quanto Jules Favre o qualsiasi altro coccodrillo. A Bordeaux [10] il primo provvedimento per salvare la Francia dall’imminente rovina finaziaria fu di attribuirsi un appannaggio di tre milioni all’anno, il che fu la prima e l’ultima parola di quella "repubblica economica", la cui prospettiva aveva aperta ai suoi elettori di Parigi nel 1869. Uno dei suoi antichi colleghi della Camera dei deputati del 1830, anch’egli capitalista, e ciononostante membro devoto della Comune di Parigi, il signor Beslay, ha testè rivolto a Thiers in un manifesto pubblico le parole seguenti:

"L’asservimento del lavoro al capitale è sempre stato la pietra angolare della vostra politica, e dal primo giorno che avete visto la Repubblica del Lavoro installata nell’Hotel de Ville non avete cessato di gridare alla Francia: "Costoro sono dei criminali!"".

Maestro di piccole truffe di Stato, virtuoso dello spergiuro e del tradimento, artista in tutti i bassi stratagemmi, nelle astuzie furbesche e nelle vili perfidie delle lotte di partito parlamentari; non avendo scrupolo, se fuori del potere, di attizzare una rivoluzione, né di soffocarla nel sangue una volta al timone dello Stato; con pregiudizi di classe al posto delle idee, e con la vanità al posto del cuore; con una vita privata altrettanto infame quanto è odiosa la sua vita pubblica; anche ora, che rappresenta la parte di un Silla francese, egli non può fare a meno di far risaltare la bruttura delle sue azioni col ridicolo della sua ostentazione.

La capitolazione di Parigi, consegnando alla Prussia non solo Parigi, ma tutta la Francia, conclusa la lunga serie di intrighi col nemico e dei tradimenti che gli usurpatori del 4 settembre avevano incominciato, a detta dello stesso Trochu, in quello stesso giorno. D’altra parte, essa dette inizio alla guerra civile che costoro stavano per impegnare, con l’aiuto della Prussia, contro la repubblica e contro Parigi. La trappola era preparata nei termini stessi della capitolazione. In quel momento più di un terzo del paese era nelle mani del nemico. La capitale era tagliata dalle provincie. Tutte le comunicazioni erano disorganizzate. In quelle circostanze, eleggere una vera rappresentanza della Francia era impossibile, a meno di non disporre di molto tempo per la preparazione. In cosiderazione di ciò, la capitolazione stipulava che un’Assemblea Nazionale doveva essere eletta entro otto giorni, cosicchè in molte parti della Francia la notizia delle elezioni imminenti arrivò solamente alla vigilia del giorno stabilito. L’Assemblea, inoltre, per un esplicita clausola della capitolazione, doveva essere eletta solo allo scopo di decidere della pace e della guerra, e di concludere, eventualmente, un trattato di pace. La popolazione non poteva non sentire che i termini dell’armistizio rendevano impossibile la continuazione della guerra, e che per sancire la pace imposta da Bismarck i peggiori uomini della Francia erano i migliori. Ma non contento di queste precauzioni, Thiers, anche prima che il segreto dell’armistizio fosse trapelato a Parigi, partì per un viaggio elettorale nelle provincie, per ridare artificialmente vita al cadavere del partito legittimista, che ora, insieme con gli orleanisti, avrebbe dovuto prendere il posto dei bonapartisti, per il momento impossibili. Egli non ne aveva nessuna paura.Quale partito si prestava come strumento di controrivoluzione più di quello che, inconcepibile come forza dirigente della Francia moderna e trascurabile perciò come rivale, svolgeva un’azione che, secondo le parole dello stesso Thiers (Camera dei deputati del 5 gennaio 1833), "si era sempre ridotta a tre risorse; l’invasione straniera, la guerra civile e l’anarchia"? Ma i legittimisti credevano fermanente all’avvento del loro millennio retrospettivo lungamente atteso. Il tallone dell’invasione straniera calpestava la Francia; un impero era crollato e Napoleone era prigioniero; ed essi stessi erano sempre là. La ruota della storia era evidentemente tornata indietro per fermarsi alla Chambre introuvable [11] del 1816. Nelle assemblee della repubblica, dal 1848 al 1851, essi erano stati rappresentati dai loro capi parlamentari colti e inesperti; ora era il grosso del partito che si faceva avanti: tutti i Pourceaugnac [12] della Francia.

Appena si riunì a Bordeaux questa assemblea di "rurali", Thiers le fece capire che i preliminari di pace dovevano essere ratificati subito, senza nemmeno gli onori di un dibattito parlamentare, perchè queste era la sola condizione alla quale la Prussia avrebbe permesso loro di aprire le ostilità contro la repubblica, e contro la sua cittadella, Parigi. E, in realtà la controrivoluzione non aveva tempo da perdere. Il II Impero aveva più che raddoppiato il debito nazionale e immerso tutte le grandi città in gravosi debiti municipali. La guerra aveva gonfiato le passività in modo spaventevole e devastato senza pietà le risorse della nazione. Per completare la rovina, lo Shylock [13] era là con la sua tratta per il mantenimento di mezzo milione dei suoi soldati sul suolo francese, la sua indennità di cinque miliardi e l’interesse del 5 per cento per le scadenze rinviate. Chi doveva pagare il conto? Solo con l’abbattimento violento della repubblica gli accaparratori della ricchezza potevano sperare di riversare sulle spalle dei suoi produttori il costo di una guerra che proprio essi, gli accaparratori, avevano provocato. La immensa rovina della Francia spronava dunque questi patriottici rappresentanti della terra e del capitale a inserire, sotto gli occhi stessi e sotto il patronato dell’invasore, nella guerra esterna una guerra civile, una rivolta di negrieri.

Un grande ostacolo si levava sulla via di questo complotto: Parigi. Il disarmo di Parigi era la prima condizione di successo. A Parigi dunque Thiers ingiunse di deporre le armi. Quindi la città fu portata all’esasperazione dalle frenetiche manifestazioni antirepubblicane dell’Assemblea dei "rurali" e dalle equivoche manifestazioni personali di Thiers circa lo stato giuridico della repubblica; dalla minaccia di capitolare e di decapitalizzare Parigi; dalla nomina di ambasciatori orlealisti; dalle leggi di Dufaure circa le cambiali e le pigioni scadute, leggi che rovinano il commercio e l’industria degli artigiani; dalla imposta Pouyer-Quertier di due centesimi su ogni esemplare di qualsivoglia pubblicazione; dalla condanna a morte di Blanqui e di Flourens; dalla soppressione dei giornali repubblicani; dal trasferimento dell’Assemblea nazionale di Varsailles; dal rinnovo dello stato d’assedio proclamato da Palikao e spirato il 4 settembre; dalla nomina di Vinoy, il decembriseur, a governatore di Parigi, di Valentin, gendarme bonapartista, a prefetto di polizia e di D’Aurelle de Paladines, il generale gesuita, a comandante in capo della Guardia nazionale di Parigi.

E ora abbiamo una domanda da rivolgere al signor Thiers e ai suoi tirapiedi, membri del governo di difesa nazionale. E’ noto che, per mezzo del suo ministro delle finanze signor Pouyer-Quertier, Thiers aveva contratto un prestito di due miliardi. Orbene è vero o non è vero:

1) Che l’affare fu regolato in modo che una provvigione di qualche centinaio di milioni fosse assicurata per beneficio personale di Thiers, Jules Favre, Ernest Picard, Poyer-quertier e Jules Simon?

2) Che il denaro non doveva essere versato che dopo la "pacificazione" di Parigi?

In ogni modo, vi dovette essere qualche cosa di molto urgente a questo proposito, perchè Thiers e Jules Favre in nome della maggioranza dell’Assemblea di Bordeaux, sollecitassero senza vergogna l’occupazione immediata di Parigi da parte delle truppe prussiane. Questo però non entrava nel giuoco di Bismarck, come egli, sogghignando, raccontò in pubblico più tardi, al suo ritorno in Germania, agli ammirati filistei di Francoforte.

Note

1. Marx nel Secondo indirizzo sulla guerra franco-prussiana scrive che la repubblica francese "è nelle mani di un governo provvisorio composto in parte di orlealisti notori, in parte di repubblicani borghesi, in alcuni dei quali la rivoluzione del giugno 1848 ha lasciato un marchio indelebile".

2. Firma dell’armistizio fra Jules Favre e Bismarck che sancisce la capitolazione di Parigi.

3. Thiers aveva preparato un piano di aggressione militare contro la popolazione parigina per disarmarla. Ma, il 18 marzo, la resistenza popolare rese vano il suo piano, le truppe fraternizzarono con il popolo ed egli fu costretto a lasciare Parigi insieme al suo governo.

4. In inghilterra ai delinquenti che hanno già scontato la maggior parte della loro pena si danno alle volte fogli di licenza, coi quali possono vivere in libertà ma sotto la sorveglianza della polizia. Questi fogli si chiamano tickets-of-leave e i loro possessori ticket-of-leave-men.

5. Ostetrico.

6. Ferdinando II, re delle due Sicilie, soprannominato "re Bomba" per il borbardamento di Messina (7 novembre 1848).

7. Nel corso dell’intervento contro la repubblica romana del 1849.

8. Mirabeau-Mosca.

9. Si tratta dei soldati francesi fatti prigionieri dai tedeschi nelle battaglie di Mets e Sedan (1870).

10. Dove, in seguito alla sconfitta, si era rifugiata l’Assemblea nazionale.

11. Camera introvabile. Così era chiamato il parlamento dopo la restaurazione monarchica del 1815, data la sua assoluta inefficienza.

12. Pourceaugnac, protagonista dell’omonima commedia-balletto di Molière, tipico rappresentante della nobiltà di campagna.

13. Personaggio che, nel Mercante di Venezia di Shakespere, impersona l’avarizia.

II

Parigi armata era l’unico ostacolo serio sulla via del complotto controrivoluzionario. Parigi, dunque, doveva essere disarmata. Su questo punto l’Assemblea di Bordeaux era la sincerità in persona. Se il ruggito declamatorio dei rurali non fosse stato abbastanza udibile, la consegna di Parigi da parte di Thiers al tenero arbitrio del triumvirato composto da Vinoy, il decembriseur, Valentin, gendarme bonapartista e D’Aurelle de Paladines, generale gesuita, avrebbe fatto sparire quest’ultima ombra di dubbio. Ma mentre ostacolavano con insolenza la loro vera intenzione nel disarmare Parigi, i cospiratori le chiesero di deporre le armi con un pretesto che era la più sfacciata, la più evidente delle menzogne. L’artiglieria della Guardia Nazionale di Parigi, affermò Thiers, apparteneva allo stato e doveva essere restituita allo stato. I fatti stavano così: dal giorno stesso della capitolazione con la quale i prigionieri di Bismarck avevano firmato la resa della Francia ma si erano riservata una numerosa guardia del corpo col proposito dichiarato di intimidire Parigi, Parigi era all’erta. La Guardia nazionale si era organizzata e aveva affidato il proprio controllo supremo a un Comitato centrale eletto da tutto il corpo eccetto alcuni resìdui delle vecchie formazioni bonapartiste. Alla vigilia dell’entrata dei prussiani a Parigi il Comitato centrale provvide a rimuovere da Montmartre, Belleville e La Villette i cannoni e le mitragliatrici abbandonati proditoriamente dai capitulards proprio entro e nei pressi dei quartieri della città che i prussiani stavano per occupare. Questa artiglieria era stata fornita con sottoscrizioni della Guardia Nazionale. Nella capitolazione del 28 gennaio era stata ufficialmente riconosciuta come proprietà privata di quest’ultima e a tal titolo era stata eccettuata dalla consegna generale al vincitore delle armi appartenenti al governo. E Thiers era così assolutamente sprovvisto di ogni pretesto, fosse pure il più insignificante, per iniziare la guerra contro Parigi, che dovette far ricorso alla sfacciata menzogna che l’artiglieria della Guardia Nazionale era proprietà dello stato!

Il sequestro dell’artiglieria avrebbe dovuto servire evidentemente come preludio al disarmo generale di Parigi, e quindi della rivoluzione del 4 settembre. Ma questa rivoluzione era divenuto un regime legale della Francia. La repubblica, opera sua, era stata riconosciuta dal vincitore nei termini della capitolazione; dopo la capitolazione, fu riconosciuta da tutte le potenze straniere e nel suo nome fu convocata l’Assemblea nazionale. La rivoluzione degli operai di Parigi del 4 settembre era il solo titolo legale dell’Assemblea nazionale di Bordeaux e del suo esecutivo. Senza di essa, l’Assemblea nazionale avrebbe dovuto senz’altro lasciare il posto al Corps legislatif eletto nel 1869 a suffragio universale sotto un regime francese, e non prussiano, e sciolto con la forza dal braccio della rivoluzione. Thiers e i suoi ticket-of-leave men avrebbero dovuto chiedere, capitolando, dei salvacondotti firmati da Luigi Bonaparte che li avrebbero salvati dal viaggio a Caienna! L’Assemblea nazionale, con i suoi poteri notarili per fissare le condizioni della pace con la Prussia, non era che un episodio di quella rivoluzione, la cui vera incarnazione era pur sempre Parigi in armi, che l’aveva iniziata, aveva subìto per essa un assedio di cinque mesi con gli orrori della fame, e aveva fatto della sua resistenza, prolungata a dispetto del piano Trochu, la base di un’ostinata guerra di difesa nelle provincie. E ora Parigi doveva: o deporre le armi al comando insolente dei negrieri ribelli di Bordeaux, e riconoscere che la sua rivoluzione del 4 settembre non significava altro che il semplice passaggio del potere da Luigi Bonaparte ai principi suoi rivali; oppure affrontare il sacrificio come campione della Francia, di quella Francia che era impossibile salvare dalla rovina e rigenerare senza l’abbattimento rivoluzionario delle condizioni politiche e sociali che avevano generato il II impero, e che sotto la sua vigilante protezione erano maturate fino al completo infradiciamento. Parigi, stremata da una carestia di cinque mesi, non esitò un istante. Decise eroicamente di affrontare tutti i rischi della resistenza contro i cospiratori francesi, nonostante che i cannoni prussiani la minacciassero dai suoi stessi forti. Pure, nella sua avversione alla guerra civile in cui Parigi doveva essere trascinata, il Comitato centrale continuò a mantenersi in una posizione puramente difensiva, malgrado le provocazioni dell’Assemblea, le usurpazioni del potere esecutivo e la minacciosa concentrazione di truppe in Parigi e dintorni. Thiers aprì la guerra civile, mandando Viloy, a capo di una moltitudine di sergents de ville [1] e di alcuni reggimenti di fanteria, in spedizione notturna contro Montmartre, per impadronirsi di sorpresa dell’artiglieria della Guardia nazionale. E’ noto come questo tentativo andasse a monte per la resistenza della Guardia nazionale e la fraternizzazione della fanteria col popolo. D’Aurelle de Paladines aveva stampato in anticipo il suo bollettino di vittoria e Thiers aveva pronti i manifesti che dovevano annunciare le sue misure da colpo di stato. Ora bollettino e manifesti dovevano venir sostituiti dagli appelli in cui Thiers era nota la sua magnanima decisione di lasciare la Guardia nazionale in possesso delle sue armi, con le quali diceva, essa si sarebbe sicuramente raccolta attorno al governo contro i ribelli. Su 300.000 guardie nazionali solo 300 risposero a questo appello di raccogliersi, contro se stesse, attorno al piccolo Thiers. La gloriosa rivoluzione operaia del 18 marzo stabilì su Parigi il suo dominio incontrastato. Il Comitato centrale fu il suo governo provvisorio. L’Europa parve per un istante dubitare se quei sensazionali spettacoli politici e militari avessero una qualche realtà o non fossero il sogno di un passato da lungo tempo scomparso.

Dal 18 marzo fino all’ingresso delle truppe versigliesi a Parigi, la rivoluzione proletaria fu tanto immune dagli atti di violenza che abbondano nelle rivoluzioni, e ancor più nelle controrivoluzioni delle "classi superiori", che i suoi avversari non trovarono nessun fatto per urlare contro di essa, eccetto l’esecuzione dei generali Lecomte e Clement Thomas e l’episodio di place Vendome. Uno degli ufficiali bonapartisti che parteciparono al tentato attacco notturno contro Montmatre, il generale Lecomte, aveva ordinato quattro volte all’81° reggimento di fanteria di far fuoco su una folla inerme in place Pigalle e al rifiuto dei suoi uomini li aveva ferocemente insultati. Invece di sparare sulle donne e sui bambini i suoi soldati spararono su di lui. Le abitudini inveterate, aquistate dai soldati alla scuola dei nemici della classe operaia, non scompaiono, naturalmente, proprio nel momento in cui i soldati passarono dall’altra parte. Gli stessi uomini giustiziarono Clement Thomas.

Il "generale" Clement Thomas, ex sergente-quartiermaestro malcontento della sua carriera, negli ultimi tempi del regno di Luigi Filippo si era arruolato nella redazione del giornale repubblicano Le National, per compiere la duplice funzione di uomo di paglia responsabile e di spadaccino duellante per conto di quel combattitissimo giornale. Dopo la rivoluzione di febbraio, gli uomini del National essendo andati al potere trasformarono il giornale quel vecchio sergente-quartiermaestro, alla vigilia del massacro di giugno, di cui egli fu, come Jules Favre, uno dei sinistri provocatori e divenne, piu’ tardi uno dei più abietti esegutori. In seguito, egli e il suo grado di generale scomparvero per molto tempo, per ritornare a galla il 1° novembre 1870. Il giorno prima il Governo della Difesa, fatto prigioniero all’Hotel de Ville, aveva solennemente promesso sul suo onore a Blanqui, a Flourens e ad altri rappresentanti della classe operaia di deporre il suo usurpato potere nelle mani di una Comune che sarebbe stata liberamente eletta a Parigi. Invece di mantenere la loro parola, essi scatenarono su Parigi i bretoni di Trochu, che avevano ora preso posto dei corsi di Bonaparte. Solo il generale Tamisier, rifiutando di macchiare il suo nome di un simile spergiuro, si dimise dal posto di comandante in capo della Guardia nazionale, e in vece sua Clement Yhomas tornò ancora a esser generale. Durante tutto il periodo del suo comando, egli non fece la guerra ai prussiani, ma alla Guardia nazionale di Parigi. Egli ne impedì l’armamento generale, aizzò i battaglioni borghesi contro i battaglioni operai, eliminò gli ufficiali ostili al "piano" di Trochu e sciolse, bollandoli con l’accusa di viltà, proprio quei battaglioni proletari il cui eroismo ha ora riempito di stupore i loro nemici più inveterati. Clement Thomas si sentiva fierissimo di avere riconquistato la sua preminenza del giugno 1848 come nemico personale della classe operaia di Parigi. Solo pochi giorni prima del 18 marzo aveva presentato al ministro della guerra Le Flo un suo piano per "finirla una volta per sempre con la fine fleur (il fior fiore) della canaille di Parigi". Dopo la sconfitta di Vinoy, non potè fare a meno di comparire sulla scena dell’azione in qualità di spia dilettante. Il Comitato centrale e gli operai di Parigi furono altrettanto responsabili dell’uccisione di Clement Thomas e di Lecomte quanto la principessa di Galles della sorte di coloro che morirono schiacciati il giorno del suo ingresso a Londra.

Il massacro dei cittadini inermi in place Vendome è una favola che il signor Thiers e i rurali ignorarono costantemente nell’Assemblea, affidandone la diffusione esclusivamente agli sguatteri del giornalismo europeo. Gli "uomini dell’ordine", i reazionari di Parigi, tremarono alla vittoria del 18 marzo. Essa fu per loro il segnale della resa dei conti popolari che stava finalmente arrivando. Si levavano davanti ai loro occhi gli spettri delle vittime che avevano assassinate dalle giornate di giugno 1848 fino al 22 gennaio 1871. Il loro panico fu la loro sola punizione. Persino i sergents de ville, invece di essere disarmati e messi dentro, come si sarebbe dovuto fare, trovarono le porte di Parigi, spalancate per ritirarsi in salvo a Versailles. Gli uomini dell’ordine non solo non furono molestati, ma si permise loro di riunirsi, e di occupar tranquillamente, più di una posizione chiave nel centro stesso di Parigi. Questa indulgenza del Comitato centrale, questa generosità degli operai armati, in così singolare contrasto con le abitudini del "partito dell’ordine", fu intesa a torto da quest’ultimo come un semplice indizio di consapevole debolezza. Di qui lo sciocco progetto di tentare, sotto la maschera di una dimostrazione pacifica, quella che Vinoy non era riuscito a fare con i suoi cannoni e con le sue mitragliatrici. Il 22 marzo una turba sediziosa di bellimbusti si mosse dai quartieri eleganti, con tutti i petits creves [2] nelle sue file, e alla sua testa i ben noti clienti dell’impero, gli Heeckeren,Coetlogon, Henri de Pene, ecc. Col pretesto codardo di una dimostrazione pacifica, questa marmaglia, armata in segreto con armi dei bravi, avanzò in ordine di marcia, maltrattò e disarmò le pattuglie isolate e le sentinelle della Guardia nazionale che incontrava sul suo cammino, e allo sbocco di rue de la Paix, al grido "abbasso il Comitato centrale! abbasso gli assassini! evviva l’Assemblea nazionale!", tentò di rompere i cordoni che erano stati posti in questo punto e di espugnare così di sorpresa il quartiere generale della Guardia nazionale in place Vendome. In risposta ai loro colpi di pistola, vennero fatte le intimazioni d’obbligo, e poichè queste non ebbero effetto, il generale della Guardia nazionale comandò il fuoco. Una sola salva mise in fuga disordinata gli stupidi zerbinotti i quali speravano che la sola esibizione delle loro "rispettabili persone" avrebbe avuto sulla rivoluzione di Parigi lo stesso effetto che le trombe di Giosuè sulle mura di Gerico. Gli sbandati lasciarono dietro di sé due guardi nazionali morte, nove gravemente ferite (tra loro un membro del Comitato centrale) e tutto il teatro della loro impresa seminato di rivoltelle, pugnali e bastoni animati, a testimonianza del carattere "inerme" della loro dimostrazione "pacifica". Quando la Guardia nazionale fece il 13 giugno 1849 una dimostrazione veramente pacifica per protestare contro il brigantesco attacco delle truppe francesi contro Roma, Changarnier, allora generale del partito dell’ordine, fu acclamato dall’Assemblea nazionale, e specialmente dal signor Thiers, come salvatore della società, per aver scagliato da tutte le parti le sue truppe contro quegli uomini disarmati, per prenderli a fucilate e a sciabolate, e farli calpestare dagli zoccoli dei cavalli. Quella volta, a Parigi, fu dichiarato lo stato d’assedio. Dufaure fece approvare d’urgenza dall’Assemblea nuove leggi repressive. Nuovi arresti, nuove proscrizioni: cominciò un nuovo regno del terrore. Ma in queste circostanze le "classi inferiori" si comportarono diversamente. Il Comitato centrale del 1871 ignorò semplicemente gli eroi della "dimostrazione pacifica"; e a un punto tale che già da due giorni dopo essi furono in grado di radunarsi, agli ordini dell’ammiraglio Saisset, per quella dimostrazione armata, che fu coronata dalla nota fuga a Versailles. Riluttante a continuare la guerra civile, aperta dalla brigantesca spedizione di Thiers contro Montmatre, il Comitato centrale si rese colpevole di un errore fatale non marciando subito contro Versailles, allora completamente indifesa, e non ponendo così fine ai complotti di Thiers e dei suoi rurali. Invece di far questo, si permise di nuovo al partito dell’ordine di provare le sue forze nell’arena eletorale, il 26 marzo, il giorno delle elezioni della Comune. Allora nelle mairies [3] di Parigi i membri di questo partito scambiarono blande parole di conciliazione con i loro troppo generosi vincitori, rimurginando in cuor loro il voto solenne di sterminarli a tempo debito. Guardiamo ora il rovescio della medaglia. Thiers aprì la sua seconda campagna contro Parigi al principio di aprile. La prima colonna di prigionieri parigini condotta a Versailles fu vittima di rivoltanti atrocità, mentre Ernest Picard, con le mani nelle tasche dei pantaloni, passeggiava davanti a loro schernendoli, e le mogli di Thiers e di Favre, circondate dalle loro dame d’onore (?), applaudivano dal balcone le ignominie della plebaglia versigliese. I soldati di fanteria fatti prigionieri vennero massacrati a sangue freddo; il nostro valoroso amico generale Duval, fonditore di ferro, venne fucilato senza neppure l’ombra di un processo. Galliffet, il mantenuto della propria moglie, nota per le sue svergognate esibizioni nelle orgie del II impero, si vantò in un proclama di aver ordinato l’assassinio di un piccolo gruppo di guardie nazionali, sorprese e disarmate, col loro capitano e col loro tenente, dai suoi cacciatori. Vinoy, il fuggiasco, fu insignito da Thiers della gran croce della legion d’onore, per aver dato ordine generale di fucilare ogni soldato di fanteria trovato nelle file dei federati. Desmaret, il gendarme, fu decorato per aver fatto a pezzi a tradimento, come un beccaio, il generoso e cavalleresco Florens, che il 31 ottobre 1870 aveva salvato le teste dei membri del governo della difesa. I "particolari incoraggianti" del suo assassinio furono comunicati per lungo e per largo con aria di trionfo da Thiers all’Assemblea nazionale. Con la tronfia vanità di un Pollicino parlamentare, al quale si permette di rappresentare la parte di Tamerlano, egli negò ai ribelli la Sua Piccolezza i diritti di condotta civile della guerra, e persino il diritto di neutralità delle ambulanze. Nulla di più ributtante di questa scimmia, a cui per un istante fu dato di sfogare liberamente i suoi istinti di tigre, come già aveva immaginato Voltaire.

Dopo il decreto della Comune del 7 aprile che ordinava rappresaglie e dichiarava essere suo dovere "proteggere Parigi contro le imprese cannibalistiche dei banditi di Versailles, ed esigere occhio per occhio, dente per dente", Thiers non pose fine al barbaro trattamento dei prigionieri, insultandoli per di più nei suoi bollettini con parole come le seguenti: "Mai facce più degeneri di una degenere democrazia hanno inflitto lo sguardo delle persone oneste", oneste come Thiers stesso e i suoi ticket-of-leave men ministeriali. La fucilazione di prigionieri venne però sospesa per un certo tempo. Tuttavia non appena Thiers e i suoi generali del 2 dicembre si accorsero che il decreto della Comune sulle rappresaglie non era che una vuota minaccia, che venivano risparmiate persino le loro spie della gendarmeria travestite da guardie nazionali e acciuffate a Parigi, e persino i sergents de ville sorpresi a portare bombe incendiarie, allora la fucilazione in massa dei prigionieri venne ripresa e continuata ininterrottamente fino alla fine. Case in cui si erano rifugiate guardie nazionali venivano circondate dai gendarmi, cosparse di petrolio (che qui fece la sua comparsa per la prima volta in questa guerra), e infine incendiate; i cadaveri carbonizzati venivano quindi portati via con l’ambulanza della Stampa alle Ternes. Quattro guardie nazionali arresesi, il 25 aprile, alla Belle-Epine a un gruppo di cacciatori a cavallo, furono uccise l’una dopo l’altra dal capitano, degno uomo di Galliffet. Una delle sue quattro vittime, lasciata per morta, Scheffer, riuscì a trascinarsi fino agli avamposti parigini e certificò il fatto davanti a una commissione della Comune. Quando Tolain interpellò il ministro della guerra sul rapporto di questa commissione, i rurali coprirono la sua voce e proibirono a Le Flò di rispondere. Sarebbe stata un’offesa per il loro "glorioso" esercito parlare delle sue gesta. Il tono disinvolto col quale i bollettini di Thiers annunciarono la strage a colpi di baionetta dei federati sorpresi nel sonno al Molin-Saquet e le fucilazioni in massa di Clamart, urtò persino i nervi non troppo sensibili del Times di Londra. Ma sarebbe ridicolo oggi tentar di enumerare anche le sole atrocità preliminari commesse da coloro che bombardarono Parigi e fomentarono una ribellione di negrieri protetta dalla invasione straniera. In mezzo a tutti questi orrori, Thiers, dimentico delle sue geremiadi parlamentari sulla terribile responsabilità gravemente sulle sue spalle di nano, si vanta nei suoi bollettini che l’Assemblèe siège paisiblement ( l’assemblea continua in pace i suoi lavori) e dà prova, con le sue continue feste, ora assieme con i generali del 2 dicembre, ora assieme con i principi tedeschi, che la sua digestione non è per niente turbata, nemmeno dagli spettri di Lecomte e di Clèment Thomas.

Note

1. Guardie della polizia municipale.

2. Damerini.

3. Municipalità.

III

All’alba del 18 marzo, Parigi fu svegliata da un colpo di tuono: "Vive la Commune!". Che cos’è la Comune, questa sfinge che tanto tormenta lo spirito dei borghesi?

"I proletari di Parigi," diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo, "in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l’ora in cui essi debbono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione dei pubblici affari... Essi hanno compreso che è loro imperioso dovere e loro diritto assoluto di rendersi padroni dei loro destini, impossessandosi del potere governativo."

Ma la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini. Il potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura - organi prodotti secondo il piano di divisione del lavoro sistematica e gerarchica - trae la sua origine dai giorni della monarchia assoluta, quando servì alla nasciente società delle classi medie come arma potente nella sua lotta contro il feudalesimo. Il suo sviluppo però fu intralciato da ogni sorta di macerie medioevali, diritti signorili, privilegi locali, monopoli municipali e corporativi e costituzioni provinciali. La gigantesca scopa della Rivoluzione francese del secolo decimottavo spazzò tutti questi resti dei tempi passati, sbarazzando così in pari tempo il terreno sociale dagli ultimi ostacoli che si frapponevano alla costituzione di esso dell’edificio dello stato moderno, elevato sotto il I impero, il quale a sua volta fu il prodotto delle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna. Durante i successivi regimes il governo, posto sotto il controllo parlamentare, cioè sotto il controllo diretto delle classi possidenti, non diventò solamente l’incubatrice di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni, esso non solo diventò il pomo della discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti; ma anche il suo carattere politico cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della società. A misura che il progresso dell’industria moderna sviluppava, allargava, accentuava l’antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, lo stato assunse sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe.

Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello stato risultava in modo sempre più evidente. La rivoluzione del 1830, che fece passare il potere dai grandi proprietari fondiari ai capitalisti, lo trasferì dai più lontani antagonisti degli operai ai loro antagonisti più ristretti. I borghesi repubblicani che avevano preso il potere statale in nome della rivoluzione di febbraio, se ne valsero per i massacri di giugno, allo scopo di convincere la classe operaia che la repubblica "sociale" significava repubblica che assicurava la loro soggezione sociale, e per convincere la massa monarchica della classe borghese e dei grandi proprietari fondiari che poteva tranquillamente lasciare ai borghesi "repubblicani" le cure e gli emolumenti del governo.

Dopo la loro unica eroica impresa di giugno i repubblicani borghesi dovettero però retrocedere dalla prima fila alla retroguardia del "partito dell’ordine", combinazione formata da tutte le frazioni e fazioni rivali della classe appropriatrice nel loro antagonismo ormai aperto con le classi produttrici. La forma più adatta per il loro governo comune fu la repubblica parlamentare, con Luigi Bonaparte presidente. Esso fu un regime di aperto terrorismo di classe e di deliberato insulto alla "vile multitude". Se, come diceva Thiers, la repubblica parlamentare era il regime che "meno divideva [le differenti frazioni della classe dirigente]", essa apriva un abisso tra questa classe e l’intero corpo della società, escluso dalle sue ristrette file. Gli impedimenti posti ancora al potere statale sotto i precedenti regimi dalle divisioni fra le frazioni della classe dirigente, furono rimossi dalla loro unione; ed ora, in vista della minaccia di sollevamento del proletariato, esse usarono del potere dello stato, senza riguardi e con ostentazione, come strumento pubblico di guerra del capitale contro il lavoro. Nella loro ininterrotta crociata contro le masse dei produttori esse furono costrette, però, non solo ad attribuire all’esecutivo poteri di repressione sempre più vasti, ma in pari tempo a spogliare la loro stessa fortezza parlamentare - l’Assemblea nazionale - di tutti i suoi mezzi di difesa contro l’esecutivo, l’uno dopo l’altro. L’esecutivo, nella persona di Luigi Bonaparte, le mise alla porta. Il frutto naturale della repubblica del "partito dell’ordine" fu il II impero.

L’impero, con un colpo di stato per certificato di nascita, il suffragio universale per sanzione e la spada per scettro, pretendeva di poggiare sui contadini, la grande massa di produttori non direttamente impegnati nella lotta tra capitale e lavoro. Pretendeva di salvare la classe operaia distruggendo il parlamentismo, e, insieme con questo, l’aperta sottomissione del governo alle classi possidenti; pretendeva di salvare le classi possidenti mantenendo la loro supremazia economica sulla classe operaia. Finalmente, pretendeva di unire tutte le classi risuscitando per tutte la chimera della gloria nazionale. In realtà era l’unica forma di governo possibile in un periodo in cui la borghesia aveva già perduto la facoltà di governare la nazione e il proletariato non l’aveva ancora acquistata. Esso fu salutato in tutto il mondo come il salvatore della società. Sotto il suo dominio, la società borghese, libera da preoccupazioni politiche, raggiunse uno sviluppo che essa stessa non aveva mai sperato; la sua industria e il suo commercio assunsero proporzioni colossali; la truffa finaziaria celebrò orgie cosmopolite; la miseria delle masse fu messa in rilievo da una ostentazione sfacciata di lusso esagerato, immorale, abietto. Il potere dello stato, apparentemente librato al di sopra della società, era esso stesso lo scandalo più grande di questa società e in pari tempo il vero e proprio vivaio di tutta la sua corruzione. La sua decomposizione e la decomposizione della società che esso aveva salvato vennero messe a nudo dalla baionetta prussiana, ben disposta per conto suo a trasferire il centro di gravità di questo regime da Parigi a Berlino. L’imperialismo è la più prostituita e insieme l’ultima forma di quel potere statale che la nasciente società della classe media aveva incominciato ad elaborare come strumento della propria emancipazione dal feudalesimo, e che la società borghese in piena maturità aveva alla fine trasformato in strumento per l’asservimento del lavoro al capitale.

La Comune fu l’antitesi diretta dell’impero. Il grido di "repubblica sociale", col quale il proletariato di Parigi aveva iniziato la rivoluzione di febbraio, non esprimeva che una vaga aspirazione a una repubblica che non avrebbe dovuto eliminare soltanto la forma monarchica del dominio di classe, ma lo stesso dominio di classe. La Comune fu la forma positiva di questa repubblica.

Parigi, sede centrale del vecchio potere governativo e, nello stesso tempo, fortezza sociale della classe operaia francese, era sorta in armi contro il tentativo di Thiers e dei rurali di restaurare e perpetuare il vecchio potere governativo trasmesso loro dall’impero. Parigi poteva resistere solo perchè, in conseguenza dell’assedio, si era liberata dell’esercito, e lo aveva sostituito con una Guardia nazionale, la cui massa era composta di operai. Questo fatto doveva, ora, essere trasformato in un’istituzione permanente. Il primo decreto della Comune, quindi, fu la soppressione dell’esercito permanente e la sostituzione ad esso del popolo armato.

La Comune fu composta dai consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti dalla classe operaia. La Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Invece di continuare a essere l’agente del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile della Comune, revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche dell’amministrazione. Dai membri della Comune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello stato scomparvero insieme con i dignitari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà privata delle creature del governo centrale. Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le iniziative già prese dallo stato passarono nelle mani della Comune.

Sbarazzarsi dell’esercito permanente e della polizia, elementi della forza materiale del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza della repressione spirituale, il "potere dei preti", sciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto enti possidenti. I sacerdoti furono restituiti alla quiete della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, ad imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. Tutti gli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della chiesa e dello stato. Così non solo l’istruzione fu resa accessibile a tutti, ma la scienza stessa fu liberata dalle catene che le avevano imposto i pregiudizi di classe e la forza del governo. I funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro abietta soggezione a tutti i governi che si erano succeduti, ai quali avevano, di volta in volta, giurato fedeltà, per violare in seguito il loro giuramento. I magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri pubblici funzionari.

La Comune di Parigi doveva naturalmente servire di modello a tutti i grandi centri industriali della Francia. Una volta stabilito a Parigi e nei centri secondari il regime comunale, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il posto anche nelle provincie all’autogoverno dei produttori. In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare è detto chiaramente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo borgo, e che nei distretti rurali l’esercito permanente doveva essere sostituito da una milizia nazionale, con un periodo di servizio estremamente breve. Le comuni rurali di ogni distretto avrebbero dovuto amministrare i loro affari comuni mediante un’assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali avrebbero dovuto loro volta mandare dei rappresentanti alla delegazione nazionale a Parigi, ogni delegato essendo revocabile in qualsiasi momento e legato al mandat impératif (istruzioni formali) dei suoi elettori. Le poche ma importanti funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale, non sarebbero state soppresse, come venne affermato falsamente in malafede ma adempiute da funzionari comunali, e quindi strettamente responsabili. L’unità della nazione non doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla Costituzione comunale, e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva essere l’incarnazione di questa unità indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che un’escrescienza parassitaria. Mentre gli organi puramente repressivi del vecchio potere governativo dovevano essere amputati, le sue funzioni legittime dovevano essere strappate a una autorità che usurpava una posizione predominante nella società stessa, e restituite agli agenti responsabili della società. Invece di decidere una volta ogni tre o sei anni quale membro della classe dominante dovesse mal rappresentare il popolo nel parlamento, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni, così come il suffragio individuale serve a ogni altro imprenditore privato per cercare gli operai e gli organizzatori della sua azienda. Ed è ben noto che le associazioni di affari, come gli imprenditori singoli, quando si tratta di veri affari, sanno generalmente come mettere a ogni posto l’uomo adatto, e se una volta tanto fanno un errore, sanno rapidamente correggerlo. D’altra parte, nulla poteva essere più estraneo allo spirito della Comune, che mettere al posto del suffragio universale una investitura gerarchica.

E’ comunemente destino di tutte le creazioni storiche completamente nuove di essere prese a torto per riproduzioni di vecchie e anche defunte forme di vita sociale con le quali possono avere una certa rassomiglianza. Così questa nuova Comune, che spezza il moderno potere statale, venne presa a torto per una riproduzione dei Comuni medioevali, che prima precedettero questo stesso potere statale e poi ne divennero sostrato. La Costituzione della Comune è stata presa a torto per un tentativo di spezzare in una federazione di piccoli stati, come era stata sognata da Montesquieu e dai girondini, quella unità delle grandi nazioni, che se originariamente è stata realizzata con la forza politica, è ora diventata un potente fattore della produzione sociale. L’antagonismo tra la Comune e il potere statale è stato preso a torto per una forma esagerata della vecchia lotta contro l’eccesso di centralizzazione. Speciali circostanze storiche possono aver impedito in altri paesi lo sviluppo classico della forma borghese di governo che si è avuta in Francia e possono aver permesso, come in Inghilterra, di completare i grandi organi centrali dello stato con corrotti consigli parrocchiali, con consiglieri comunali trafficanti, feroci custodi della legge dei poveri nelle città e magistrati virtualmente ereditari nelle campagne. La Costituzione della Comune avrebbe invece restituito al corpo sociale tutte le energie sino allora assorbite dallo stato parassita, che si nutre alle spalle della società e ne intralcia i liberi movimenti. Con questo solo atto avrebbe iniziato la rigenerazione della Francia. La classe media francese delle provincie vide nella Comune un tentativo di restaurare il controllo che il suo ceto aveva avuto sul paese sotto Luigi Filippo, e che, sotto Luigi Napoleone, era stato soppiantato dal preteso sopravvento delle campagne sulle città. In realtà la Costituzione della Comune metteva i produttori rurali sotto la direzione intellettuale dei capoluoghi dei loro distretti, e quivi garantiva loro, negli operai, i naturali tutori dei loro interessi. La esistenza stessa della Comune portava con sè come conseguenza naturale la libertà municipale locale, ma non più come un contrappeso al potere dello stato ormai diventato superfluo. Soltanto nella testa di un Bismarck - il quale, quando non è preso dai suoi intrighi di sangue e di ferro, ama sempre ritornare al vecchio mestiere così adatto al suo calibro mentale di collaboratore del Kladderadatsch [1] (il Punch di Berlino) - soltanto in una testa così fatta poteva entrare l’idea di attribuire alla Comune di Parigi l’ispirazione a quella caricatura della vecchia organizzazione municipale francese del 1791 che è la Costituzione municipale prussiana, la quale riduce le amministrazioni cittadine alla funzione di ruote puramente secondarie della macchina poliziesca dello stato prussiano. La Comune fece una realtà dello slogan delle rivoluzioni borghesi, il governo a buon mercato, distruggendo le due maggiori fonti di spese, l’esercito permanente e il funzionalismo statale. La sua esistenza stessa supponeva la non esistenza della monarchia che, in Europa, almeno, è l’abituale zavorra e l’indispensabile maschera del dominio di classe. Essa forniva alla repubblica la base per vere istituzioni democratiche. Ma né il governo a buon mercato né la "vera repubblica" erano la sua meta finale, essi furono solo fatti concomitanti.

La molteplicità delle interpretazioni che si danno della Comune e la molteplicità degli interessi che nella Comune hanno trovato la loro espressione, mostrano che essa fu una forma politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state unilateralmente repressive. Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro.

Senza quest’ultima condizione, la Costituzione della Comune sarebbe stata una cosa impossibile e un inganno. Il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale. La comune doveva dunque servire da leva per svelare le basi economiche su cui riposa l’esistenza delle classi, e quindi del dominio di classe. Con l’emancipazione del lavoro tutti diventano operai, e il lavoro produttivo cessa di essere un attributo di classe.

E’ un fatto strano: nonostante tutto il gran parlare e l’immensa letteratura degli ultimi sessant’anni sull’emancipazione del lavoro, non appena gli operai, in un paese qualunque, prendono decisamente la cosa nelle loro mani, immediatamente si leva tutta la fraseologia apologetica dei portavoce della società presente, con i suoi due poli di capitale e schiavitù del salario (il proprietario fondario è ora soltanto il socio passivo del capitalista), come se la società capitalista fosse ancora nel suo stato più puro di verginale innocenza, con i suoi antagonismi non ancora sviluppati, con i suoi inganni non ancora sgonfiati, con le sue meretricie realtà non ancora messe a nudo. La Comune, essi esclamano, vuole abolire la proprietà, la base di ogni civiltà! Sì, o signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l’espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato. Ma questo è comunismo, "impossibile" comunismo! Ebbene, quelli tra i membri della classi dominanti che sono abbastanza intelligenti per comprendere la impossibilità di perpetuare il sistema presente - e sono molti -sono diventati gli apostoli seccanti e rumorosi della produzione cooperativa. Ma se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista; se delle associazioni cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all’anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalistica; che cosa sarebbe questo o signori, se non comunismo, "possibile" comunismo?

La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre par dècret du peuple. Sa che per realizzare la sua propria emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini. La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese. Pienamente cosciente della sua missione storica e con l’eroica decisione di agire in tal senso, la classe operaia può permettersi di sorridere delle grossolane invettive dei signori della penna e dell’inchiostro, servitori dei signori senza qualificativi e della pedantesca protezione dei benevoli dottrinari borghesi, che diffondono i loro insipidi luoghi comuni e le loro ricette settarie col tono oracolare dell’infallibilità scientifica.

Quando la Comune di Parigi prese nelle sue mani la direzione della rivoluzione; quando per la prima volta semplici operai osarono infrangere il privilegio governativo dei "loro superiori naturali", e, in mezzo a difficoltà senza esempio, compirono l’opera loro con modestia, con coscienza e con efficacia - e la compirono per salari il più alto dei quali era appena il quinto di ciò che, secondo un’alta autorità scientifica, è il minimo richiesto per il segretario di un consiglio scolastico in una metropoli - il vecchio mondo si contorse in convulsioni di rabbia alla vista della Bandiera Rossa, simbolo della Repubblica del Lavoro, sventolante sull’Hotel de Ville.

Eppure, questa fu la prima rivoluzione in cui la classe operaia sia stata apertamente riconosciuta come la sola classe capace di iniziativa sociale, persino della grande maggioranza della classe media parigina - artigiani, commercianti, negozianti - eccettuati soltanto i ricchi capitalisti. La Comune li aveva salvati con un regolamento sagace del problema che è causa eterna di contrasti all’interno stesso della classe media, il conto del dare e avere [2].

Questa stessa parte della classe media, immediatamente dopo aver aiutato a schiacciare la insurrezione operaia del giugno 1848, era stata sacrificata ai suoi creditori dall’Assemblea nazionale, senza tante cerimonie. Ma questo non era il solo motivo per cui ora queste classi medie si schieravano attorno alla classe operaia. Esse sentirono che vi era una sola alternativa: o la Comune o l’impero, sotto qualsiasi nome questo potesse ripresentarsi. L’impero le aveva rovinate economicamente con lo sperpero delle ricchezze pubbliche, con le truffe finanziarie su larga scala che esso aveva favorito, con l’impulso dato all’accelerazione artificiale della concentrazione del capitale e con la concomitante espropriazione di una grande parte del loro ceto. Le aveva soppresse politicamente, le aveva scandalizzate moralmente con le sue orge, aveva offeso il loro volterianismo affidando l’istruzione dei loro figli ai Frères Ignorantins [3], aveva rivoltato il loro sentimento nazionale di francesi precipitandoli a capofitto in una guerra che per le rovine provocate aveva lasciato un solo compenso: la scomparsa dell’impero. Di fatto, dopo l’esodo da Parigi di tutta l’alta bohème bonapartista e capitalista, il vero partito dell’ordine della classe media si era presentato nelle sembianze dell’Union républicaine, schierandosi sotto le bandiere della Comune e difendendola dalle premeditate falsificazioni di Thiers.

Se la riconoscenza di questa grande massa della classe media resisterà alle difficili prove odierne, il tempo solo lo mostrerà.

La Comune aveva perfettamente ragione di dire ai contadini che "la sua vittoria era la sola loro speranza". Di tutte le menzogne escogitate da Versailles e riprese come un’eco dai gloriosi giornalisti europei penny-a-liner, una delle più colossali fu che i rurali rappresentassero i contadini francesi. Basta pensare all’amore del contadino francese per gli uomini a cui, dopo il 1815, aveva dovuto pagare il miliardo di indennità. Agli occhi del contadino francese la sola esistenza di un grande proprietario fondario è di per se stessa una violazione delle sue conquiste del 1789. I borghesi, nel 1848, avevano imposto al suo piccolo pezzo di terra l’imposta addizionale di 45 centesimi per franco; ma allora lo avevano fatto in nome della rivoluzione, mentre ora avevano fomentato una guerra civile contro la rivoluzione, per far cadere sulle spalle dei contadini il peso principale dei cinque miliardi di indennità da pagarsi ai prussiani. La Comune, d’altra parte, dichiarò in uno dei soui primi proclami che le spese della guerra dovevano essere pagate da quelli che ne erano stati i veri autori. La Comune avrebbe liberato il contadino dall’imposta del sangue; gli avrebbe dato un governo a buon mercato; avrebbe trasformato le odierne sanguisughe, il notaio, l’avvocato, l’usciere e gli altri vampiri giudiziari, in agenti comunali salariati eletti da lui e davanti a lui responsabili; lo avrebbe liberato dalla tirannide della garde champetre [4], del gendarme e del prefetto; avrebbe sostituito all’instupidimento ad opera dei preti l’istruzione illuminata del maestro elementare. Il contadino francese è, sopratutto, un calcolatore. Egli avrebbe trovato assolutamente ragionevole che la retribuzione dei sacerdoti, invece di essere estorta dagli agenti delle imposte, dipendesse solo dalla azione spontanea ispirata dai sentimenti religiosi dei parrocchiani. Questi erano i grandi benefici immediati che il governo della Comune - ad esso solo - offriva ai contadini francesi. E’ dunque del tutto superfluo diffondersi qui sugli altri problemi più complicati, ma di vitale importanza, che soltanto la Comune era capace di risolvere e nello stesso tempo costretta a risolvere in favore del contadino, come per esempio quello del debito ipotecario, che pesa come un incubo sul suo piccolo appezzamento di terreno, quella del prolétariat foncier (proletariato rurale) di giorno in giorno in aumento per questa ragione e della sua espropriazione che è messa in atto con la forza, a un ritmo sempre più rapido dallo stesso sviluppo dell’agricoltura moderna e dalla concorrenza dell’azienda agricola capitalista.

Il contadino francese aveva eletto Luigi Bonaparte presidente della repubblica, ma il partito dell’ordine creò l’impero. Quel che il contadino francese desidera veramente, incominciò a mostrarlo nel 1849 e nel 1850, contrapponendo in suo maire [5] al prefetto del governo, il suo maestro di scuola al prete del governo e se stesso al gendarme del governo. Tutte le leggi fatte dal partito dell’ordine nel gennaio e febbraio 1850 furono misure di repressione aperta contro il contadino. Il contadino era bonapartista perchè ai suoi occhi la grande Rivoluzione, con i suoi vantaggi per lui, era personificata in Napoleone. Come avrebbe potuto questa illusione, rapidamente crollata sotto il II impero (e per la sua stessa natura ostile ai rurali), resistere all’appello della Comune agli interessi vitali e ai bisogni urgenti dei contadini?

I rurali - ed era questa, di fatto, la loro apprensione principale - sapevano che tre mesi di libere comunicazioni tra Parigi della Comune e le provincie avrebbero portato a una insurrezione generale dei contadini. Di qui la loro preoccupazione di stabilire attorno a Parigi un cordone poliziesco come se si fosse trattato di impedire il diffondersi della peste bovina.

Se la Comune era dunque la vera rappresentante di tutti gli elementi sani della società francese, e quindi il vero governo nazionale, era in pari tempo un governo internazionale in tutto il senso della parola, poichè era governo di operai e campione audace della emancipazione del lavoro. Sotto gli occhi dell’esercito prussiano, che aveva annesso alla Germania due provincie francesi, la Comune annettè alla Francia gli operai di tutto il mondo. Il II impero era stato la festa della furfanteria cosmopolita, le canaglie di tutti i paesi essendo accorse al suo appello per prender parte alle sue orge e al saccheggio del popolo francese. In questo momento stesso, braccio destro di Thiers è Ganesco, l’immondo valacco, e il suo braccio sinistro è Makovski, la spia russa: la Comune ammise tutti gli stranieri all’onore di morire per una causa immortale. Tra la guerra esterna perduta per il suo tradimento e la guerra civile provocata dalla sua cospirazione con l’invasore straniero, la borghesia aveva trovato il tempo di manifestare il suo patriottismo organizzando battute di caccia poliziesche contro i tedeschi in Francia. La Comune fece di un operaio tedesco il suo ministro del lavoro. Thiers, la borghesia, il II impero, avevano continuamente ingannato la Polonia con rumorose professioni di simpatia, mentre in realtà la tradivano e la abbandonavano alla Russia, di cui facevano il sordido servizio. La Comune onorò i figli eroici della Polonia ponendoli a capo dei difensori di Parigi. E per dare chiaramente rilievo alla nuova èra della storia ch’essa era consapevole di iniziare, la Comune sotto gli occhi dei prussiani conquistatori da una parte, e dell’esercito bonapartista condotto da generali bonapartisti dall’altra, abbattè il simbolo colossale della gloria militare, la colonna Vendome. La grande misura sociale della Comune fu la sua stessa esistenza operante. Le misure particolari da essa approvate potevano soltanto presagire la tendenza a un governo del popolo per opera del popolo. Tali furono l’abolizione del lavoro notturno dei panettieri; la proibizione, pena sanzioni, della pratica degli imprenditori di ridurre i salari imponendo ai loro operai multe coi pretesti più diversi, procedimento nel quale l’imprenditore unisce nella sua persona le funzioni di legislatore, giudice ed esecutore, e per di più ruba denaro. Altra misura di questo genere fu quella di consegnare alle associazioni operaie, sotto riserva d’indennizzo, tutte le fabbriche e i laboratori chiusi, tanto se i rispettivi capitalisti s’erano nascosti, quanto se avevano preferito sospendere il lavoro. Le misure finaziarie della Comune, notevoli per la loro sagacia e moderazione, non potevano andare al di là di quanto fosse compatibile con la situazione di una città assediata. Considerando le ruberie colossali commesse ai danni della città di Parigi, sotto la protezione di Haussmann, dalle grandi compagnie finanziarie e dai grandi appaltatori, la Comune avrebbe avuto titoli, per confiscarne le proprietà, incompatibilmente più validi di quelli che avesse Napoleone per confiscare le proprietà della famiglia d’Orléans. Gli Hohenzollern e gli oligarchi inglesi, che hanno tratto entrambi una buona parte delle loro tenuta dal saccheggio delle chiese, furono naturalmente molto scandalizzati dal fatto che la Comune non ricavasse più di 8000 franchi dalla secolarizzazione dei beni ecclesiastici.

Mentre il governo di Versailles, appena ripreso un pò di coraggio e di forza, ricorreva contro la Comune ai mezzi più violenti; mentre esso sopprimeva la libera espressione delle opinioni in tutta la Francia, arrivando sino a proibire le riunioni di delegati delle grandi città; mentre esso assoggettava Versailles e il resto della Francia a uno spionaggio che sorpassava di gran lunga quello del II impero; mentre faceva bruciare dai suoi gendarmi inquisitori tutti i giornali stampati a Parigi e censurava tutte le lettere da e per Parigi; mentre l’Assemblea nazionale i più timidi tentativi di dire una parola in favore di Parigi erano soffocati da urla sconosciute persino alla Chambre introuvable del 1816; mentre Versailles conduceva dal di fuori una guerra selvaggia e all’interno di Parigi tentava di organizzare corruzione e complotti, non avrebbe la Comune tradito vergognosamente la sua missione se avesse affrettato di osservare tutte le convenzioni e le apparenze del liberismo, come in tempi di perfetta pace? Se il governo della Comune fosse stato dello stesso stampo di quello del signor Thiers, non vi sarebbero stati meno pretesti di sopprimere i giornali del partito dell’ordine a Parigi che di sopprimere quelli della Comune a Versailles.

Certo però era cosa irritante per i rurali che, nel momento in cui essi dichiaravano il ritorno della chiesa solo mezzo di salvezza per la Francia, la miscredente Comune dissotterrasse gli strani misteri del convento del Picpus e quelli della chiesa di San Lorenzo [6]. Era una satira contro Thiers il fatto che, mentre egli copriva di gran croci i generali bonapartisti come riconoscimento della loro capacità di perdere battaglie, firmar capitolazioni e farsi le sigarette a Wilhelmshohe, la Comune destituisse e arrestasse i suoi generali al minimo sospetto di negligenza nell’adempimento dei loro doveri. L’espulsione dalla Comune e l’arresto di uno dei suoi membri che vi si era introdotto con nome falso, e aveva scontato a Lione sei giorni di prigione per bancarotta semplice, non era forse un deliberato insulto scagliato contro il falsario Favre, che continuava ad essere ministro degli esteri della Francia, a vendere la Francia a Bismarck, a dettare ordini all’incomparabile governo belga? Ma ciononostante la Comune non pretendeva all’infallibilità, attributo invariabile di tutti i governi del vecchio stampo. Essa rendeva pubblici i suoi atti, le sue parole, essa rendeva noti al pubblico tutti i suoi difetti.

In tutte le rivoluzioni si intrufolano, accanto ai loro rappresentanti autentici, individui di altro conio; alcuni sono superstiti e devoti di rivoluzioni passate, che non comprendono il movimento presente, ma conservano una influenza sul popolo per la loro nota onestà e per il loro coraggio, o per la semplice forza della tradizione; altri non sono che schiamazzatori i quali, a forza di ripetere anno per anno la stessa serie di stereotipe declamazioni contro il governo del giorno, si sono procacciata la fama di rivoluzionari della più bell’acqua. Anche dopo il 18 marzo vennero a galla alcuni tipi di questo genere, e in qualche caso riuscirono a rappresentare parti di primo piano. Nella misura del loro potere, essi furono di ostacolo all’azione reale della classe operaia, esattamente come uomini di tale specie avevano ostacolato lo sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi elementi sono un male inevitabile: col tempo ci si sbarazza di loro; ma alla Comune non fu concesso tempo.

Meravigliosa, in verità, fu la trasformazione operata dalla Comune di Parigi! Sparita ogni traccia della Parigi meretricia del II impero! Parigi non fu più il ritrovo dei grandi proprietari fondiari inglesi, dai latifondisti assenteisti irlandesi, degli ex negrieri e loschi affaristi americani, degli ex proprietari di servi russi e dei boiardi valacchi. Non più cadaveri alla Morgue, non più rapine e scassi notturni, quasi spariti i furti. Invero, per la prima volta dopo i giorni del febbraio 1848, le vie di Parigi furono sicure e senza nessun servizio di polizia. "Non sentiamo più parlare - diceva un membro della Comune - di assassinii, furti e agressioni. Si direbbe davvero che la polizia abbia trascinato con sé a Versailles tutti i suoi amici conservatori". Le cocottes avevano seguito le orme dei loro protettori, gli scomparsi campioni della famiglia, della religione e sopratutto della proprietà. Al posto loro ricomparvero alla superficie le vere donne di Parigi, eroiche, nobili e devote come le donne dell’antichità. Parigi lavoratrice, pensatrice, combattente, insanguinata, raggiante nell’entusiasmo della sua iniziativa storica, quasi dimentica, nella incubazione di una nuova società, dei cannibali che erano alle sue porte!

Di fronte a questo nuovo mondo di Parigi, il vecchio mondo di Versailles - questa Assemblea di iene di tutti i regimi defunti, legittimisti e orleanisti, avidi di nutrirsi del cadavere della nazione - con un codazzo di repubblicani antidiluviani, che sanzionavano con la loro presenza nell’Assemblea la rivolta dei negrieri, si rimettevano per il mantenimento della loro repubblica parlamentare alla vanità del senile ciarlatano che era alla loro testa, e facevano la caricatura del 1789 tenendo le loro riunioni spettrali nel Jeu de Paume. Eccola, questa Assemblea, la rappresentante di tutto ciò che in Francia era morto, puntellato e mantenuto con un sembiante di vita unicamente dalle spade dei generali di Luigi Bonaparte! Parigi, tutta la verità; Versailles, tutta la menzogna, e questa menzogna sprigionata dalla bocca di Thiers.

Thiers dice a una deputazione di sindaci della Seine-et-Oise: "Potete contare sulla mia parola, alla quale non ho mai mancato". Dice all’Assemblea stessa che "era l’Assemblea più liberamente eletta e più liberale che la Francia avesse mai avuta", dice alla sua soldatesca variopinta ch’essa era " l’ammirazione del mondo e il più bell’esercito che mai avesse avuto in Francia", dice alle provincie che il borbardamento di Parigi da lui ordinato era un mito: "Se alcuni colpi di cannone sono stati tirati, non è stato per opera dell’esercito di Versailles, ma degli insorti , i quali volevano far credere che combattevano, mentre non osavano mostrare il naso". E dice ancora alle provincie che "l’artiglieria di Versailles non bombarda Parigi; la cannoneggia soltanto". Dice all’arcivescovo di Parigi che le pretese esecuzioni e rappresaglie attribuite alle truppe di Versailles sono fantasie. Dice a Parigi che era soltanto ansioso di "liberarla dai ripugnanti tiranni che l’opprimevano" e che di fatto la Parigi della Comune era "solo un pugno di criminali".

La Parigi del signor Thiers non era la Parigi reale della "vile moltitude", era una Parigi spettrale, la Parigi dei franchi truffatori, la Parigi dei boulevards, maschi e femmine: la Parigi ricca, capitalista, coperta d’oro, infingarda, che ora ingombrava, coi suoi lacchè, coi suoi ladri in guanti gialli, con la sua bohème di letterati e con le sue cocottes, Versailles, Saint-Denis, Rueil e Saint-Germain; che considerava la guerra civile soltanto come una gradevole diversione; che seguiva lo sviluppo della battaglia coi boccoli, contava i colpi di cannone e giurava sul suo onore e su quello delle sue prostitute che lo spettacolo era allestito molto meglio di quanto non si usasse al teatro delle Porte St. Martin. Gli uomini che cadevano erano veramente morti, le grida dei feriti eran grida sul serio; e tutto l’assieme, poi, era così intensamente storico! Questa è Parigi del signor Thiers, come la emigrazione di Coblenza [7] era la Francia del signor De Calonne.

Note

1. Kladderadatsch, settimanale satirici-umoristico, fondato a Berlino nel 1848.

2. Il 18 aprile la Comune pubblicò un decreto di moratoria triennale dei debiti.

3. Frati Ignorantini, ordine religioso.

4. Guardia campestre.

5. Sindaco.

6. Nel convento di Picpus furono trovate donne trattenute dai monaci sotto l’accusa di pazzia e destinate ad essere violentate e sepolte vive. Nella chiesa di S. Lorenzo furono rinvenuti scheletri di donne che già avevano subìto quella sorte.

7. Dove, scoppiata la rivoluzione del 1789, i fugiaschi costituiscono il principale centro della reazione aristocratica.

IV

Il primo tentativo della congiura dei negrieri per abbattere Parigi facendola occupare dai prussiani fallì per il rifiuto di Bismarck. Il secondo tentativo, quello del 18 marzo, terminò con la sconfitta dell’esercito e con la fuga a Versailles del governo, il quale ordinò a tutto l’apparato amministrativo di interrompere il suo lavoro e seguire le sue orme. Mediante una parvenza di trattative di pace con Parigi, Thiers trovò il tempo di prepararsi a farle la guerra. Ma dove trovare un esercito? I resti dei reggimenti di linea erano scarsi di numero e poco sicuri; il suo appello urgente alle provincie di soccorrere Versailles con le loro guardie nazionali e con volontari urtò in un netto rifiuto. Solo la Bretagna mandò un pugno di Chouans che combattevano con la bandiera bianca, ognuno con un cuore di Gesù di stoffa bianca sul petto e al grido di "Vive le roi!". Thiers fu dunque costretto a mettere assieme in gran fretta un’accozzaglia variopinta di marinai, fucilieri di marina, zuavi pontifici, gendarmi di Valentin, sergents de ville e mouchards [1] di Pietri. Questo esercito, però, sarebbe stato importante sino al ridicolo senza l’aggiunta dei prigionieri di guerra dell’esercito imperialista, che Bismarck fornì in numero esattamente sufficente ad alimentare la guerra civile e a tenere il governo di Versailles alle abbiette dipendenze della Prussia. Durante la guerra stessa, la polizia di Versailles dovette sorvegliare l’esercito di Versailles, mentre i gendarmi avevano il compito di trascinarlo al combattimento esponendosi in tutti i posti pericolosi. I forti che caddero non furono presi, ma comprati. L’eroismo dei federati convinse Thiers che la resistenza di Parigi non poteva essere spezzata dal suo genio strategico e dalle baionette di cui disponeva.

Frattanto le sue relazioni con le provincie diventavano sempre più difficili. Nemmeno un indirizzo di approvazione venne a rallegrare Thiers e i suoi rurali. Al contrario, arrivarono da tutte le parti deputazioni e indirizzi in cui si chiedeva, in tono tutt’altro che rispettoso, la riconciliazione con Parigi sulla base del riconoscimento esplicito della repubblica, della conferma delle libertà comunali e dello scioglimento dell’Assemblea nazionale il cui mandato era estinto; e in tale quantità che Dufaure, ministro della giustizia di Thiers, nella sua circolare del 23 aprile ordinava ai procuratori di considerare delitto "gli appelli di riconciliazione"! Tuttavia, in considerazione della prospettiva disperata della sua campagna, Thiers decise di cambiare la sua tattica, dando ordine che il 30 di aprile avessero luogo le elezioni municipali in tutto il paese, sulla base della nuova legge municipale da lui stesso dettata all’Assemblea nazionale. Tanto con gli intrighi dei suoi prefetti, quanto con le intimidazioni poliziesche, egli si sentiva in grado di dare all’Assemblea nazionale, mediante il verdetto delle provincie, quel potere morale che essa non aveva mai avuto, e di ottenere infine dalle provincie la forza materiale necessaria per la conquista di Parigi. Alla sua guerra di brigantaggio contro Parigi, che egli esaltava nei suoi bollettini, e ai tentativi dei suoi ministri di instaurare in tutta la Francia il regno del terrore, Thiers si era preoccupato sin dall’inizio di accompagnare una piccola commedia di riconciliazione, la quale doveva servire a più di uno scopo. Doveva ingannare le provincie, attirare gli elementi delle classi medie di Parigi, e, sopratutto, procurare ai sedicenti repubblicani dichiarati dall’Assemblea nazionale l’opportunità di nascondere il loro tradimento di Parigi dietro la loro fiducia in Thiers. Il 21 marzo, mentre non aveva ancora un esercito, egli aveva dichiarato all’Assemblea: "Qualunque cosa avvenga, non manderò un esercito contro Parigi". Il 27 marzo s’alzò ancora per dire: "Ho trovato la repubblica come fatto compiuto e sono fermamente deciso a mantenerla". In realtà, egli schiacciò la rivoluzione a Lione e a Marsiglia in nome della repubblica, mentre gli urli dei suoi rurali coprivano a Versailles ogni accenno anche solo al nome di essa. Dopo questa impresa egli attenuò il "fatto compiuto" riducendolo a un fatto ipotetico. Ai principi di Orléans, ch’egli aveva prudentemente avvisati di lasciare Bordeaux, si permetteva, ora, in aperta violazione della legge, di intrigare a Dreux. Le concessioni offerte da Thiers nelle sue interminabili interviste coi delegati di Parigi e delle provincie, benchè continuamente variate di tono e di colore a seconda del tempo e delle circostanze, di fatto non andarono mai oltre la promessa che la vendetta sarebbe stata limitata a quel "pugno di criminali implicati nell’assassinio di Lecomte e di Clément Thomas", con la premessa, ben inteso, che Parigi e la Francia avrebbero accettato Thiers stesso come migliore delle repubbliche possibili, proprio come egli, nel 1830, aveva accettato Luigi Filippo. Ed aveva cura di render dubbie persino queste concessioni, mediante commenti ufficiali con i quali i suoi ministri le accompagnavano nell’Assemblea. Per agire egli aveva il suo Dufaure. Dufaure, questo vecchio avvocato orlealista, è sempre stato il giudice supremo dello stato d’assedio, così ora, nel 1871, sotto Thiers, come nel 1839 sotto Luigi Filippo, e nel 1849 sotto la presidenza di Luigi Bonaparte. Fuori del governo, si era arricchito come avvocato dei capitalisti di Parigi e si era fatto un capitale politico combattendo in tribunale contro leggi fatte da lui stesso. Costui ora non soltanto si affrettò a far approvare dall’Assemblea nazionale una serie di leggi repressive, che avrebbero dovuto, dopo la caduta di Parigi, estirpare gli ultimi residui di libertà repubblicana in Francia, ma prefigurò la sorte di Parigi abbreviando la procedura delle corti marziali, secondo lui troppo lenta, e introducendo un nuovo e strano codice draconiano di deportazione. Luigi Bonaparte non aveva osato, per lo meno in teoria, restaurare il regime della ghigliottina. L’Assemblea dei rurali, non ancora abbastanza impudente per sostenere che i parigini fossero non ribelli ma assassini, doveva perciò limitare le sue prospettive di vendetta contro Parigi al nuovo codice di deportazione di Dufaure. In tutte queste circostanze, Thiers stesso non avrebbe potuto continuare la sua commedia di riconciliazione, se questa commedia - com’egli del resto voleva - non avesse provocato gli urli di rabbia dei rurali, la cui mente ruminante non comprendeva né il trucco, né le sue necessità di ipocrisia, di tergiversazione, di procrastinazione.

In vista delle imminenti elezioni municipali del 30 aprile, Thiers rappresentò il 27 aprile una delle sue grandi scene di riconciliazione. In mezzo a un diluvio di retorica sentimentale, egli esclamò dalla tribuna dell’assemblea:

"Non vi è nessuna congiura contro la repubblica, fuorché quella di Parigi, che ci costringe a versare sangue francese. L’ho detto e lo ripeto. Che le empie armi cadano dalle mani che le impugnano, e il castigo verrà arrestato immedietamente da un atto di clemenza da cui verrà esluso soltanto il piccolo numero dei criminali."

Alle violente interruzioni dei rurali egli replicò:

"Signori, ditemelo, ve ne supplico, ho torto? Vi addolora realmente il fatto che io abbia detto, il che è vero, che i criminali non sono che un piccolo numero? Non è una fortuna, in mezzo alle nostre disgazie, che coloro i quali sono stati capaci di versare il sangue di Clément Thomas e del generale Lecomte non siano che rare eccezioni?"

La Francia, però, fece orecchi di mercante a quello cheThiers s’immaginava fosse il canto d’una sirena parlamentare. Su 700.000 consiglieri comunali eletti dai 35.000 comuni rimasti alla Francia, i legittimisti, orlealisti e bonapartisti riuniti non ne contavano che 8000. Le elezioni supplementari che seguirono furono ancora più decisamente ostili. Così invece di ottenere dalle provincie la forza materiale di cui aveva bisogno assoluto, l’Assemblea nazionale, perdette anche l’ultimo diritto alla forza morale, quello di poter dire di essere l’espressione del suffragio universale del paese. Per completare la sconfitta, i neoeletti consigli comunali di tutte le città della Francia minacciarono apertamente l’assemblea usurpatrice di Versailles di convocare una controassemblea a Bordeaux.

E finalmente arrivò per Bismarck il momento, lungamente atteso, dell’azione decisiva. Egli ingiunse in tono perentorio a Thiers di mandare a Francoforte plenipotenzari per la conclusione definitiva della pace. Con umile obbedienza alla voce del padrone, Thiers si affrettò a mandare il suo fedele Jules Favre, accompagnato da Pouyer-Quertier, "eminente" cotoniere di Rouen, fervente e persino servile fautore del II Impero: non vi aveva mai trovato altro difetto che il trattato di commercio con l’Inghilterra, il quale recava pregiudizio ai suoi propri interessi di bottega. Appena installato a Bordeaux come ministro delle finanze di Thiers, aveva denunciato questo trattato "malaugurato", aveva fatto cenno alla sua prossima abrogazione, e aveva persino avuto la sfontatezza di tentare, sebbene invano (avendo fatto i conti senza Bismarck), la messa in vigore immediata dei vecchi dazi protettivi contro l’Alsazia, al che, egli diceva, non si opponeva nessun precedente trattato internazionale. Questo uomo, che considerava la controrivoluzione come mezzo per ridurre i salari a Rouen e la cessione di provincie francesi come mezzo per far salire i prezzi delle sue merci in Francia, non era forse predestinato ad essere, proprio lui, scelto da Thiers come compare di Jules Favre nel suo ultimo e culminante tradimento?

All’arrivo a Francoforte di questa squisita coppia di plenipotenziari, il brutale Bismarck li pose senz’altro davanti a questa imperiosa alternativa: o la restaurazione dell’impero, o l’accettazione incondizionata delle mie condizioni di pace! Queste condizioni comprendevano una riduzione dei termini in cui si doveva pagare l’indennità di guerra e l’occupazione dei forti di Parigi da parte delle truppe prussiane fino a che Bismarck non si fosse sentito soddisfatto della situazione in Francia; la Prussia venendo così riconosciuta arbitro supremo della politica interna francese! In cambio egli offriva di lasciar libero, per lo sterminio di Parigi, l’esercito bonapartista prigioniero e di dargli l’aiuto diretto delle truppe dell’imperatore Guglielmo. Come prova della sua buona fede, egli faceva dipendere il pagamento della prima rata dell’indennità dalla "pacificazione" di Parigi. Una esca simile fu naturalmente ingoiata con avidità da Thiers e dai suoi plenipotenziari. Essi firmarono il trattato di pace il 10 maggio e lo fecero ratificare dall’Assemblea il 18.

Nell’intervallo tra la conclusione della pace e l’arrivo dei prigionieri bonapartisti, Thiers si sentì tanto più obbligato a riprendere la sua commedia della riconciliazione in quanto i suoi strumenti repubblicani avevano bisogno di un pretesto per chiudere un occhio sui preparativi del massacro di Parigi. Ancora l’8 maggio egli rispondeva a una deputazione di conciliatori delle classi medie: "Appena gli insorti faranno intendere la resa, le porte di Parigi verranno spalancate per tutti durante una settimana, eccetto che per gli assassini dei generali Clément Thomas e Lecomte".

Alcuni giorni dopo, interpellato violentemente dai rurali su queste promesse, rifiutò di dare qualsiasi spiegazione; non però senza aver fatto loro questo significativo cenno: "Vi dico che vi sono tra di voi degli impazienti; della gente che ha troppa fretta. Attendano ancora otto giorni; alla fine di questi otto giorni non vi sarà più nessun pericolo, e il compito sarà allora proporzionato al loro coraggio e alle loro capacità". Non appena Mac Mahon fu in grado di assicuragli che in breve sarebbe potuto entrare in Parigi, Thiers dichiarò all’Assemblea che "sarebbe entrato in Parigi brandendo la legge, e avrebbe costretto gli scellerati che avevano sacrificato la vita dei soldati e distrutto pubblici monumenti a espiare completamente i loro delitti". Quando il momento decisivo fu vicino disse all’Assemblea: "Sarò spietato"; disse a Parigi che era condannata, e ai suoi briganti bonapartisti che lo stato permetteva loro di vendicarsi di Parigi a loro piacimento. Infine, quando il tradimento, il 21 maggio, ebbe aperto le porte di Parigi al generale Douay, Thiers, il 22 maggio, rivelò ai rurali lo "scopo" della sua commedia di conciliazione, che essi così ostinatamente avevano continuato a non capire: "Vi ho detto pochi giorni or sono che stavamo avvicinandoci al nostro scopo; oggi vengo a dirvi che lo scopo è raggiunto. L’ordine, la giustizia, la civiltà, hanno finalmente riportato la vittoria!".

E così era davvero. La civiltà e la giustizia dell’ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest’ordine insorgono contro i loro padroni. Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nude barbarie e vendetta ex lege. Ogni nuova crisi nella lotta di classe tra gli accaparratori della ricchezza e i produttori di essa mette in luce più chiaramente questo fatto. Persino le atrocità dei borghesi nel giugno 1848 scompaiono davanti all’infamia indicibile del 1871. L’eroico spirito di sacrificio col quale la popolazione di Parigi - uomini, donne e bambini - combattè per otto giorni dopo l’entrata dei versigliesi, rispecchia la grandezza della sua causa, quanto le azioni diaboliche della soldatesca rispecchiano lo spirito innato di quella civiltà di cui essa è la vendicatrice mercenaria. Gloriosa civiltà invero, il cui problema vitale consiste nel trovare il modo di far sparire i cadaveri da lei ammucchiati, dopo che la battaglia è terminata!

Per trovare un parallelo alla condotta di Thiers e dei suoi segugi, bisogna risalire fino ai tempi di Silla e dei due triunvirati di Roma. Gli stessi eccidi in massa a sangue freddo; la stessa noncuranza nel massacro di fronte all’età e al sesso; lo stesso sistema di torturare i prigionieri; le stesse prescrizioni, ma ora di una classe intera; la stessa caccia selvaggia ai capi nascosti, per non lasciarne sfuggire nemmeno uno; le stesse denuncie di nemici politici e privati; la stessa indifferenza per il massacro di persone assolutamente estranee al conflitto. La sola differenza è che i romani non avevano mitragliatrici per ammazzare in massa i prigionieri, e non avevano "la legge nelle loro mani", né sulle labbra il grido di "civiltà". E dopo questi orrori guardate l’altro aspetto, ancora più ributtante, di questa civiltà borghese, come è stato descritto dalla sua stessa stampa! Scrive il corrispondente parigino di un giornale conservatore di Londra:

"Mentre echeggiano in lontananza spari dispersi, e digraziati feriti muoiono senza cure fra le pietre sepolcrali del Père Lachaise, mentre 6000 insorti terrorizzati erano in un agonia disperata nel labirinto delle catacombe, e poveri sciagurati sono cacciati per le strade per essere abbattuti a mucchi dalle mitragliatrici, è cosa rivoltante vedere i caffè zeppi di devoti dell’assenzio, del bigliardo e del domino; vedere la sfrontatezza femminile passeggiare in lungo e in largo sui boulevards, e il chiasso delle orge provenienti dai cabinets particuliers dei ristoranti di lusso turbare la quiete notturna."

Il signor Edouard Hervé scrive nel Journal de Paris, organo versigliese soppresso dalla Comune:

"Il modo come la popolazione di Parigi ha manifestato ieri la sua soddisfazione era peggio che frivolo, e noi temiamo che le cose peggiorino col tempo. Parigi ha adesso un aspetto di giorno di fete che è tristemente fuori posto; e a meno che non vogliamo essere chiamati i parisiens de la décadence, bisogna mettere un termine a queste cose."

In seguito cita il passo di Tacito:

"Eppure il giorno dopo quella lotta terribile, anche prima che essa fosse del tutto finita, Roma, degenerata e corrotta, ricominciò ancora una volta a gettarsi in quel fango di voluttà che distruggeva il suo corpo e insozzava il suo animo: alibi proelia et vulnera, alibi balneae popinseque (qua combattimenti e ferite, là bagni e taverne)."

Il signor Hervé dimentica soltanto di dire che la "popolazione di Parigi" di cui parla non è che la popolazione della Parigi del signor Thiers, i francs-fileurs di ritorno in folla da Versailles, Saint-Denis, Rueil e Saint-Germain: la Parigi della "decadenza".

In tutti i suoi trionfi sanguinosi sui combattimenti che si sacrificavano per una nuova e migliore società questa civiltà scellerata, fondata sull’asservimento del lavoro, soffoca il gemito delle sue vittime, sotto uno strepito di calunnie che trovano un’eco mondiale. La serena Parigi operaia della Comune viene improvvisamente trasformata in un inferno dai segugi dell’ "ordine". E che cosa prova questa terribile trasformazione agli spiriti borghesi di tutti i paesi? Null’altro se non che la Comune ha cospirato contro la civiltà! Il popolo di Parigi muore con l’entusiasmo per la Comune, in numero superiore a quello dei morti di qualunque battaglia della storia. Che cosa prova ciò? Null’altro se non che la Comune non era il governo del popolo stesso, ma la usurpazione di un pugno di criminali. Le donne di Parigi sacrificarono con gioia la loro vita sulle barricate e sul luogo del supplizio. Che cosa prova ciò? Null’altro se non che il demone della Comune le ha cambiate in Megere e Ecati! La moderazione della Comune durante due mesi di dominio incontrastato è uguagliata solo dall’eroismo della sua difesa. Che cosa prova ciò? Null’altro se non che la Comune per mesi ha nascosto con cura sotto la maschera di moderazione e di umanità la sete di sangue dei suoi istinti infernali, che si dovevano scatenare solo nell’ora della sua agonia!

Parigi operaia, nell’atto del suo eroico sacrificio, ha travolto nelle sue fiamme case e monumenti. Quando fanno a pezzi il corpo vivente del proletariato, i suoi dominatori non debbono più contare di fare un ritorno trionfale in mezzo all’architettura intatta delle loro dimore. Il governo di Versailles grida: "Incendiari!" e sussurra a tutti i suoi sgherri, fino nell’ultimo villaggio, la parola d’ordine di dare dappertutto la caccia ai suoi nemici come sospetti di essere incendiari professionali. La borghesia di tutto il mondo, che assiste con compiacimento al massacro dopo la battaglia, rabbrividisce d’orrore al veder profanati la calce e i mattoni!

Quando i governi danno licenza ufficiale alle loro marine di "uccidere, bruciare, e distruggere" questa è o non è una licenza di incendiare? Quando le truppe inglesi dettero deliberatamente fuoco al Campidoglio di Washington e al palazzo d’estate dell’imperatore della Cina, si trattava o no di atti da icendiari? Quando i prussiani, non per ragioni militari, ma per puro spirito di vendetta, dettero fuoco, con l’aiuto del petrolio, a città come Chateaudun e a innumerevoli villaggi, erano o no incendiari? Quando Thiers per sei settimane bombardò Parigi, col pretesto che voleva metter fuoco solo alle case abitate, era o no un incendiario? In guerra, il fuoco è un’arma legittima come tutte le altre. Gli edifici occupati dal nemico vengono bombardati per appiccarvi il fuoco. Se i difensori si devono ritirare, appiccano essi stessi il fuoco per impedire all’attaccante di fare uso degli edifici. L’essere distrutti dalle fiamme è sempre stato l’inevitabile destino di tutti gli edifici situati sul fronte di combattimento di tutti gli eserciti regolari del mondo. Ma nella guerra degli schiavi contro i loro asservitori, la sola guerra giustificabile nella storia, ciò non dovrebbe più essere vero! La Comune fece uso del fuoco esclusivamente come mezzo di difesa. Ne fece uso per sbarrare alle truppe versigliesi quei viali lunghi e rettilinei che Haussmann aveva aperto appositamente per il fuoco dell’artiglieria; ne fece uso per coprire la ritirata, allo stesso modo che i versigliesi, nella loro avanzata, fecero uso delle cannonate che distrussero per lo meno altrettanti edifici quanti ne distrusse il fuoco della Comune. Ancora oggi si discute quali edifici vennero incendiati dai difensori e quali dagli attaccanti. E i difensori non fecero ricorso al fuoco se non quando le truppe versigliesi avevano già incominciato l’assassinio in massa dei prigionieri. D’altra parte, la Comune aveva già da molto tempo annunciato pubblicamente che, se fosse stata spinta agli estremi, avrebbe sepolto se stessa sotto le rovine di Parigi, e fatto di Parigi una seconda Mosca, come aveva promesso di fare, ma solo per coprire il suo tradimento, anche il governo della difesa. A questo scopo Trochou aveva procurato il petrolio. La Comune sapeva che ai suoi nemici non importava nulla della vita del popolo di Parigi, ma che stavano loro a cuore gli edifici da essi posseduti a Parigi. E Thiers, inoltre, li aveva avvertiti che sarebbe stata implacabile nella vendetta. Non appena ebbe pronti da un lato il suo esercito dall’altro i prussiani che chiudevano la trappola, proclamò: "Sarò senza pietà! L’espiazione sarà completa e la giustizia sarà inflessibile!". Se gli atti degli operai di Parigi sono stati vandalismo, è stato il vandalismo di una difesa disperata, non il vandalismo del trionfo, come quello che i cristiani perpetrarono a danno dei tesori d’arte veramente inapprezzabili dell’antichità pagana; e persino questo vandalismo dei cristiani è stato giustificato dagli storici come elemento concomitante inevitabile e relativamente insignificante della lotta titanica tra la società nuova in sul nascere e una vecchia società al tramonto. Gli atti degli operai di Parigi furono ancora meno del vandalismo di Haussmann, il quale distrusse la Parigi storica per far posto alla Parigi dei bighelloni!

Ma l’esecuzione da parte della Comune dei sessantaquattro ostaggi con l’arcivescovo di Parigi alla testa! La borghesia e il suo esercito nel giugno 1848 ristabilirono una consuetudine che da molto tempo era scomparsa dalla pratica della guerra, quella di uccidere i loro prigionieri indifesi. Da allora questa consuetudine brutale è stata seguita più o meno fedelmente da coloro che hanno represso tutti i movimenti popolari in Europa e in India. In questo modo essi hanno fornito la prova che questa consuetudine costituisce veramente un "progresso della civiltà"! D’altra parte i prussiani, in Francia, avevano ristabilito la pratica di prendere ostaggi, uomini innocenti che dovevano rispondere a loro con la propria vita delle azioni degli altri. Quando Thiers, come abbiamo visto, rimise in vigore sin dall’inizio del conflitto la consuetudine umanitaria di uccidere i prigionieri comunardi, la Comune, per proteggere la loro vita, fu costretta a far ricorso alla pratica prussiana di prendere ostaggi. La vita degli ostaggi era stata condannata più di una volta dalle continue uccisioni di prigionieri perpetrate dai versigliesi. Come potevano essere risparmiati più a lungo dopo il massacro con cui i pretoriani di Mac Mahon celebrarono il loro ingresso a Parigi? Si doveva dunque far diventare una semplice burla anche la presa degli ostaggi, ultima garanzia contro la ferocia senza scrupoli dei governi borghesi?Il vero assassino dell’arcivescovo Darboy è Thiers. La Comune aveva offerto ripetute volte di scambiare l’arcivescovo, e molti sacerdoti per giunta, col solo Blanqui, allora nelle mani di Thiers. Thiers rifiutò ostinatamente. Sapeva che con Blanqui avrebbe dato alla Comune una testa, mentre l’arcivescovo gli sarebbe stato più utile come cadavere. Thiers agì secondo il precedente di Cavaignac. Quali grida d’orrore non gettarono Cavaignac e i suoi uomini dell’ordine nel giugno 1848 per infamare gli insorti come assassini dell’arcivescovo Affre! Essi sapevano perfettamente che l’arcivescovo era stato ucciso dai soldati dell’ordine. Il signor Jacquemet, vicario generale dell’arcivescovo, testimone oculare della cosa, ne aveva fornito loro le prove subito dopo il fatto.

Tutto questo coro di calunnie che il partito dell’ordine, nelle sue orge di sangue, non manca mai di lanciare contro le sue vittime, prova soltanto che i borghesi dei nostri giorni si considerano successori leggittimi del barone di un tempo, che trovava legittima nelle sue mani ogni arma contro il plebeo, mentre nelle mani del plebeo ogni arma era per sé un delitto.

La cospirazione della classe dirigente per abbattere la rivoluzione mediante una guerra civile combattuta con l’aiuto di un invasore straniero - cospirazione che abbiamo seguìto fin dal 4 settembre sino all’ingresso dei pretoriani di Mac Mahon per la porta di St. Cloud - culminò nel macello di Parigi. Bismarck rimira con soddisfazione le rovine di Parigi, in cui egli vede forse il primo passo di quella distruzione generale delle grandi città per la quale aveva pregato il cielo quando era ancora un semplice rurale nella Chambre introuvable prussiana del 1849. Egli rimira compiaciuto i cadaveri del proletariato di Parigi. Per lui ciò non è solo lo sterminio della rivoluzione, ma l’estinzione della Francia, oggi in realtà decapitata, e per opera dello stesso governo francese. Con la superficialità caratteristica di tutti gli uomini di stato fortunati, egli non vede che l’apparenza esteriore di questo tremendo avvenimento storico. Quando mai prima d’ora nella storia ha offerto lo spettacolo di un vincitore che corona la sua vittoria trasformandosi non soltanto in gendarme, ma in bravo prezzolato del governo vinto? Non vi era stato di guerra tra la Prussia e la Comune di Parigi. Al contrario, la Comune aveva accettato i preliminari di pace, e la Prussia aveva dichiarato la sua neutralità. La Prussia non era dunque parte belligerante, essa faceva la parte del bravo, e di un bravo vile, perchè non correva nessun pericolo; di un bravo prezzolato, perchè aveva stipulato in anticipo il pagamento di 500 milioni, prezzo del sangue, alla caduta di Parigi. E così, alla fine, appariva il vero carattere della guerra ordinata dalla Provvidenza come castigo della Francia atea e corrotta per mano della pia e morale Germania! E questa violazione senza precedenti del diritto delle genti, anche se inteso al modo dei giuristi del vecchio mondo, invece di spingere i governi "civili" d’Europa a dichiarare fuori legge il governo fellone della Prussia, semplice strumento del gabinetto di Pietroburgo, li incita solamente a discutere se le poche vittime sfuggite al duplice cordone che circonda Parigi non devono essere consegnate al carnefice di Versailles!

Il fatto che dopo la guerra più terribile dei tempi moderni l’esercito vincitore e l’esercito vinto fraternizzano per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti non indica, come pensa Bismarck, lo schiacciamento finale di una nuova società al suo sorgere, ma la decomposizione completa della società borghese. Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi come una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti.

Dopo la Pentecoste del 1871 non vi può essere né pace né guerra tra gli operai francesi e gli appropriatori del prodotto del loro lavoro. La mano di ferro di una soldatesca mercenaria potrà per un certo tempo tenere le due classi legate sotto una stessa oppressione; ma la battaglia tra di loro dovrà scoppiare di nuovo in proporzioni sempre più grandi, e non può essere dubbio chi sarà alla fine il vincitore: se i pochi appropriatori o l’immensa maggioranza lavoratrice. E la classe operaia francese non è altro che l’avanguardia del proletariato moderno.

Mentre i governi europei attestano così, davanti a Parigi, il carattere internazionale del dominio di classe, essi si scagliano addosso all’Associazione internazionale degli operai - controrganizzazione internazionale del lavoro contro la cospirazione cosmopolita del capitale - accusandola di essere la fonte prima di tutti questi disastri. Thiers accusò di essere il despota del lavoro, pretendendo di esserne il liberatore. Picard dette l’ordine di tagliare tutti i collegamenti dei membri francesi dell’Internazionale con quelli dell’estero; il conte Jaubert, il mummificato complice di Thiers del 1835, dichiara che il grande problema di tutti i governi civili è di sdradicarla. I rurali urlano contro di essa, e tutta la stampa europea fa coro alle loro urla. Uno scrittore francese stimato, completamente estraneo alla nostra Associazione, si esprime in questo modo:

"I membri del Comitato centrale della Guardia nazionale e così pure la maggior parte dei membri della Comune, sono le menti più attive, intelligenti ed energiche dell’Associazione internazionale degli operai... uomini profondamente onesti, siceri, intelligenti, devoti, puri e fanatici nel senso buono della parola."

Lo spirito borghese, imbevuto di pregiudizi polizieschi, si figura naturalmente che l’Associazione internazionale degli operai funzioni al modo di una cospirazione segreta, con il suo organismo centrale che ordina, di quando in quando, esplosioni in diversi paesi. La nostra associazione in realtà, non è altro che il legame internazionale tra gli operai più avanzati dei differenti paesi del mondo civile. Dovunque, in qualsiasi forma e in qualsiasi condizione, la lotta di classe prenda una certa consistenza, è semplicemente ovvio che i membri della nostra associazione siano al primo posto. Il terreno su cui essa sorge è la stessa società moderna. Essa non può venire sradicata da nessun massacro, per quanto grande. Per sradicarla, i governi dovrebbero sradicare il dispotismo del capitale del lavoro, condizione della loro stessa esistenza di parassiti.

Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l’araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti.

Note

1. Informatori della polizia.

Appendice
I

"La colonna di prigionieri si fermò nell’avenue Ulrich e fu disposta in quattro o cinque file, sul marciapiede, col fronte verso la strada. Il generale marchese di Galliffet e il suo stato maggiore scesero da cavallo e passarono in rivista la fila a cominciare da sinistra. Avanzando lentamente ed esaminando le file, il generale si arrestava qua e là, dando a uno dei prigionieri un colpo sulle spalle o facendogli segno di uscire dalle ultime file. Nella maggior parte dei casi l’individuo designato a questo modo veniva senz’altro spinto nel centro della via, dove si formò così subito una piccola colonna supplementare... Era evidente che ciò doveva dare luogo a più di un errore. Un ufficiale a cavallo indicò al generale Galliffet un uomo e una donna per qualche delitto particolare. La donna, lanciandosi fuori dalle file, si gettò in ginocchio e con le braccia tese protestò la sua innocenza in termini appassionati. Il generale aspettò un momento e poi col viso del tutto impassibile e in atteggiamento del tutto indifferente disse: "Signora, ho frequentato tutti i teatri di Parigi, la vostra scena non avrà nessun effetto su di me"... Non era consigliabile, quel giorno, farsi notare per essere più alto, più sporco, più pulito, più vecchio o più brutto dei propri vicini. Un individuo particolarmente mi colpì, perché probabilmente dovette il suo rapido congedo da questa valle di lacrime al fatto di avere il naso rotto... Scelti così più che un centinaio di prigionieri, e comandato un plotone di esecuzione, la colonna riprese la sua marcia, lasciandoli indietro. Pochi minuti dopo, alle nostre spalle, incominciò un fuoco intermittente, che continuò per più di un quarto d’ora. Era l’esecuzione di quei disgraziati condannati in modo così sommario." (Corrispondenza da Parigi del Daily News, 8 giugno.) Questo Galliffet, "il mantenuto della propria moglie, nota per le sue svergognate esibizioni nelle orge del II Impero" aveva meritato durante la guerra il soprannome di "Caporal Pistola" francese.

"Il Temps, giornale prudente e non incline alle notizie sensazionali, racconta una storia spaventosa di persone non finite dalle fucilate e sepolte ancora vive. Un gran numero ne furono sotterrate sulla piazza attorno a St. Jacques-la-Boucherie; e alcuni molto superficialmente. Di giorno, il rumore delle strade affollate impedì di accorgersi di qualche cosa; ma nella quiete della notte gli abitanti delle case vicine furono svegliati da gemiti lontani, e la mattina si vide una mano contratta uscire dalla terra. Si diede l’ordine, in conseguenza di ciò, di fare delle esumazioni... Non ho il minimo dubbio che molti dei feriti siano stati sepolti vivi. Di un fatto posso fare testimonianza. Quando Brunel venne fucilato con la sua amante il 24 maggio scorso, nel cortile di una casa di place Vendome, i corpi restarono sul posto fino a mezzogiorno del 27. Quando i becchini vennero a rimuovere le salme trovarono che la donna era ancora in vita e la portarono a un’ambulanza. Benché avesse ricevuto quattro pallottole è ora fuori pericolo." (Corrispondenza da Parigi dell’Evening Standard dell’8 giugno.)

Appendice
II

La seguente lettera apparve sul Times del 13 giugno:

"Al direttore del giornale "Times""

Egregio signore, il 6 giugno 1871, il signor Jules Favre ha mandato una circolare a tutte le potenze europee, invitandole a perseguitare e a cacciare a morte l’Associazione internazionale degli operai. Alcune osservazioni basteranno a definire questo documento.

Già nel preambolo dei nostri statuti si dichiara che l’Internazionale fu fondata "il 28 settembre 1864, in una riunione pubblica a St. Martin’s Hall, Long Acre, Londra". Per motivi che egli solo conosce, Jules Favre trasporta la data a prima del 1862.

Per spiegare i nostri princìpi, dice di citare "il suo scritto (dell’Internazionale) del 25 marzo 1869". E che cosa cita? Lo scritto di una società che non è l’Internazionale. Egli ha praticato questo genere di manovra già quando, avvocato ancora abbastanza giovane, dovette difendere il National, giornale di Parigi, contro Cabet che lo accusava di diffamazione. Allora, il Favre dichiarò che leggeva davanti al tribunale estratti di scritti di Cabet, mentre leggeva dei passi interpolati in questi scritti da lui stesso. Questo trucchetto da giocatore di bussolotti venne smascherato in piena seduta del tribunale e se Cabet non fosse stato così indulgente, Jules Favre sarebbe stato punito con l’espulsione dall’albo degli avvocati di Parigi. Di tutti i documenti citati da lui come documenti dell’Internazionale, nemmeno uno appartiene all’Internazionale. Egli dice, per esempio: "L’Alleanza si dichiara atea, dice il Consiglio generale costituito a Londra nel luglio 1869". Il Consiglio generale non ha mai pubblicato un documento simile. Al contrario ha pubblicato un documento che annullava gli statuti originari dell’"Alleanza" - l’Alliance de la démocratie socialiste di Ginevra - citati da Jules Favre.

In tutta la sua circolare, che in parte fa finta di essere diretta anche contro l’Impero, Jules Favre ripete contro l’Internazionale solo le invenzioni poliziesche dei pubblici ministeri dell’Impero, che si dissolvevano miseramente nel nulla persino davanti ai tribunali dell’Impero stesso.

E’ noto che il Consiglio generale dell’Internazionale nei suoi due indirizzi (del luglio e settembre 1870) sulla guerra allora in corso ha denunciato i piani di conquista prussiani contro la Francia. In seguito il signor Reitlinger, segretario particolare di Jules Favre, si risolse, naturalmente invano, ad alcuni membri del Consiglio generale chiedendo che il Consiglio generale organizzasse una manifestazione di massa contro Bismarck, a favore del governo di difesa nazionale; in special modo si chiedeva che non si facesse nessuna menzione della repubblica. I preparativi per una manifestazione di massa in occasione dell’atteso arrivo a Londra di Jules Favre vennero iniziati - certo con le migliori intenzioni - contro il volere del Consiglio generale che nel suo indirizzo del 9 settembre aveva espressamente e preventivamente messo in guardia gli operai di Parigi contro Jules Favre e i suoi colleghi.

Che cosa direbbe Jules Favre se a sua volta il Consiglio generale dell’Internazionale emanasse una circolare su Jules Favre a tutti i gabinetti europei, attirando la loro attenzione particolare sui documenti pubblicati dal defunto signor Millière a Parigi?

Sono, egregio signore, il vostro devoto servitore

John Hales,

Segretario del Consiglio generale dell’Associazione internazionale degli operai."

In un articolo sull’"Associazione internazionale e i suoi scopi", lo Spectator di Londra, pio delatore, cita, insieme con altri trucchi di questo genere - e in modo ancora più completo che non Jules Favre - il documento dell’"Alleanza" sopra indicato, come fosse opera dell’Internazionale, e lo pubblica undici giorni dopo la pubblicazione nel Times della smentita che precede. La cosa non può stupirci. Già Federico il Grande era solito dire che di tutti i gesuiti quelli protestanti erano i peggiori.

Appendice
III

lettera di Marx a Weydemeyer del 5/3/1852 in cui l’autore specifica ciò che è proprio delle sue scoperte politiche.

... Al tuo posto osserverei, a proposito dei signori democratici en général, che costoro farebbero meglio a prendere conoscenza della letteratura borghese, prima di pretendere di abbaiare contro chi ne è l’antagonista. Questi signori per esempio dovrebbero studiare le opere storiche di Thierry, Guizot, John Wade ecc., per informarsi sulla passata "storia delle classi". Dovrebbero prendere conoscenza degli elementi primi dell’economia politica, prima di mettersi a criticare la critica dell’economia politica. Per esempio basta aprire la grande opera di Ricardo per trovare in prima pagina le parole con cui egli apre la prefazione.

"Il prodotto della terra, tutto quanto viene ottenuto dalla sua superficie con l’applicazione unita di lavoro, macchine e capitale, si distribuisce tra tre classi della comunità; cioè il proprietario della terra, il proprietario del capitale necessario a coltivarla, e gli operai con il cui lavoro la terra viene coltivata".

Ora, quanto poco la società borghese sia maturata negli Stati Uniti per rendere evidente e comprensibile la lotta delle classi, di ciò fornisce la dimostrazione più brillante C. H. Garey (di Philadelphia), l’unico importante economista nordamericano. Egli attacca Ricardo, il rappresentante più classico della borghesia e l’avversario più stoico del proletariato, come un uomo la cui opera sarebbe l’arsenale per gli anarchici, i socialisti, insomma per tutti i nemici dell’ordinamento borghese. Egli rimprovera non solo a lui ma anche a Malthus, Mill, Say, Torrens, Wakefield, MacCulloch, Senior, Whaiely, R. Jones ecc., questi capifila dell’economia in Europa, di dilaniare la società e di preparare la guerra civile, quando dimostrano che i fondamenti economici delle varie classi debbono provocare tra loro un antagonismo necessario e sempre crescente. Egli cerca di confutarli, non certo come lo sciocco Heinzen collegando l’esistenza delle classi all’esistenza di privilegi e monopoli politici, bensì cercando di dimostrare che le condizioni economiche: rendita (proprietà fondiaria), profitto (capitale) e salario (lavoro salariato), invece di essere condizioni della lotta e dell’antagonismo, sono piuttosto condizioni di associazione ed armonia. Naturalmente egli non fa che dimostrare che le condizioni "non sviluppate" degli Stati Uniti sono per lui le "condizioni normali".

Per quanto mi riguarda, non a me compete il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna e la loro lotta reciproca. Molto tempo prima di me, storiografi borghesi hanno descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi ed economisti borghesi la loro anatomia economica. Ciò che io ho fatto di nuovo è stato: 1) dimostrare che l’esistenza delle classi è legata puramente a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione; 2) che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura medesima non costituisce se non il passaggio all’abolizione di tutte le classi e a una società senza classi. Mascalzoni ignoranti come Heinzen, i quali non solo negano la lotta, ma persino l’esistenza delle classi, dimostrano soltanto, nonostante i loro latrati sanguinari e le loro pose umanistiche, di ritenere le condizioni sociali nelle quali la borghesia domina come il prodotto ultimo, come il non plus ultra della storia, di non essere che servi della borghesia, una servitù che è tanto più ripugnante, quanto meno questi straccioni riescono a capire anche solo la grandezza e la necessità transitoria del regime borghese stesso. ...

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